«A New York amano le “fregnacce” teramane»

Luca Di Pietro, di Nereto, ha aperto il suo quinto ristorante nella Grande Mela «Sono fedele alla cucina della nonna, peccato che qui l’Abruzzo sia sconosciuto»

NEW YORK. «Sono abruzzese e cerco di spingere l’Abruzzo nei miei ristoranti. Purtroppo, però, l’immagine dell’Abruzzo a New York è rimasta la stessa di 20 anni fa». Luca Di Pietro sta per aprire il quinto ristorante a Manhattan legando il nome della sua catena Tarallucci e Vino non solo alla quinta Avenue ma, a breve, anche a Park Avenue. Quand’era bambino guardava la strada che costeggia Central Park attraverso Arnold, la celebre serie ambientata a Park Avenue, mentre adesso sa che una casa, lì, può arrivare a costare anche 20mila dollari al metro quadro.

Abruzzese di Nereto, arrivato a New York a 24 anni nel 1994, Di Pietro non avrebbe immaginato di diventare ristoratore a Manhattan e di alzarsi la mattina guardando il telefono per controllare se nessuno tra i suoi 100 dipendenti arriverà in ritardo o ha deciso di mollare il lavoro. Fino a 8 anni fa, lavorava a New York per grandi aziende italiane fin quando ha deciso di passare dall’altra parte: non più manager per Lavazza o per Danesi caffè ma titolare di 5 ristoranti nelle zone di pregio di New York. Da Union Square all’East Village, ai due lati di Central Park: nell’Upper West Side e nell’Upper East Side, all’interno del museo del design Cooper Hewitt a due passi dal Guggenheim.

Seduto a un tavolino del suo ristorante nell’Upper West Side, Di Pietro racconta cosa piace agli americani e com’è l’Abruzzo visto da New York. Accanto a lui, il suo socio Lorenzo Baricca, l’emiliano arrivato nei locali di Di Pietro come cameriere e assunto dopo aver venduto una bottiglia di vino da 500 dollari. Baricca, originario di Vezzano sul Crostolo in provincia di Reggio Emilia, è poi diventato socio di Di Pietro e oggi si occupa di seguire tutti i ristoranti.

Di Pietro, perché ha lasciato l’Italia per New York?

«Mi sono laureato nel marzo del 1994 in Economia e Commercio a Bologna con una tesi sulle strategie di internazionalizzazione prendendo come caso la pasta De Cecco. Per la mia tesi ero andato New York a fare ricerca e, il mese successivo alla laurea, ripartii. Nel frattempo, a Bologna avevo conosciuto quella che sarebbe poi diventata mia moglie, americana di Philadelphia, arrivata a Bologna per un master. La mia fortuna poi è stata quella di vincere la green card, il permesso per vivere e lavorare in America per un periodo illimitato e con quella ho potuto rivolgermi ad aziende importanti. Iniziai a lavorare con Lavazza partendo da zero e seguendo in seguito tutti i fornitori. Poi, Danesi caffè di Roma mi offrì di aprire i suoi uffici negli Stati Uniti e accettai. Le cose andavano molto bene, fin quando un cliente francese mi raccontò che stava per vendere l’attività. Colsi l’occasione e insieme a un’altra abruzzese di Sant’Onofrio di Campli, Pepi Di Giacomo, aprimmo il primo locale nell’East Village».

Perché ha chiamato i ristoranti Tarallucci e Vino?

«L’ha scelto mia suocera americana. Le avevo regalato un libro di ricette abruzzesi scritto da Anna Teresa Callen, originaria di Guardiagrele e molto famosa a New York: è stata la consulente del film Big Night dove hanno preparato il timballo sotto la sua supervisione. Purtroppo, è scomparsa un paio di anni fa. Leggendo il suo libro, mia suocera rimase colpita da questa espressione e così è nato il nome dei miei ristoranti».

Scegliere un nome italiano è quasi obbligatorio?

«Abbastanza, anche se di solito sono più brevi e pronunciabili del mio. Dopo il primo locale nel 2005 aprii il secondo in Union Square, vicino la quinta Avenue, e le cose iniziarono a decollare fin quando ho deciso di dedicarmi solo alla ristorazione. Nel 2010, ho aperto un altro locale nell’Upper West Side e, quindi, sono stato selezionato per aprire all’interno del museo del design Cooper Hewitt, che si trova nel miglio dei musei dove sono il Guggenheim e il Metropolitan».

A New York ci sono migliaia di ristoranti italiani, come ci si distingue?

«Cercando di essere fedeli al concetto di cucina italiana di qualità. La mia idea è quella della cucina della mamma, della nonna: la cucina semplice dove l’ingrediente la fa da padrone. Non avrei mai potuto servire le fettuccine Alfredo».

Può spiegare agli abruzzesi cosa sono le fettuccine Alfredo tipiche dei ristoranti di Little Italy?

«Francamente non lo so, come pure non servo spaghetti meatballs. Insomma, sono quei piatti americanizzati che non esistono in Italia».

Quali sono stati i primi piatti che sono piaciuti agli americani?

«Due piatti della cucina teramana, le scrippelle ‘mbusse e le fregnacce con ragù di papera che sono ancora due nostri cavalli di battaglia».

Qual è la reazione degli americani ai questi piatti e a questi nomi?

«Beh, ovviamente non li capiscono e non li sanno pronunciare. Gli americani, però, sono aperti e curiosi. Io gli spiego la ricetta, gli racconto che la faceva mia nonna e che le mangiavo io da piccolo. E loro si appassionano».

Lei è titolare di cinque ristoranti a Manhattan. New York è una città che dà le vertigini, cos’è per lei il successo?

«Se mi guardo indietro non avrei mai pensato di aprire 5 ristoranti a Manhattan, pensavo che sarei rimasto a lavorare come manager in un’azienda importante. Per me, il successo è riuscire ad andare avanti, crescere restando fedeli all’idea di partenza senza compromettere la qualità».

Sta per aprire su Park Avenue, com’era questa via nel suo immaginario da italiano e cosa rappresenta oggi che è a New York da tanti anni?

«Da piccolo, il nome di Park Avenue per me era legato ad Arnold. Oggi, dopo tanti anni a New York, ho la contezza che Park Avenue è la zona per antonomasia, dove una casa può costare 20mila dollari al metro quadro. Apriremo in un nuovo palazzo disegnato da un architetto francese molto famoso di nome Christian de Portzamparc. Diciamo, che sei vai in giro a dici che hai un locale sulla quinta e su Park Avenue la gente ti guarda con rispetto».

Gli abruzzesi potranno inviarle il curriculum?

«Ho bisogno di almeno 30 persone e certo, sono disponibile a ricevere curriculum da chi vuole mettersi in gioco».

Un americano a cena: gli consigli un piatto e una bottiglia di vino.

«Il pollo arrosto che mi ricorda i sapori di casa mia. Per il vino, abbiamo una lista molto importante e si può andare in molte direzioni ma va bene un buon Montepulciano».

La bottiglia più cara che ha in lista?

«Costa 1.200 dollari. Sono tre bottiglie di Brunello Marroneto Madonna delle Grazie del 2010. Ce ne sono 60 in tutti gli Stati Uniti e noi ne abbiamo tre. Si, un signore l’ha presa».

Qual è l’immagine dell’Abruzzo a New York?

«L’Abruzzo non è conosciuto perché non abbiamo avuto la capacità di promuovere la regione. Da abruzzese spingo la mia regione, spiegando le caratteristiche dei vini e quelle geografiche al personale ma purtroppo non ho mai visto nessuna iniziativa degna di nota per promuovere l’Abruzzo a New York. E’ un peccato se si pensa che, ormai, abbiamo dei vini eccezionali come Marramiero, Valentini, Pepe, La Valentina, Camillo Montori, De Angelis Corvi, giusto per citarne alcuni. Vini fantastici così come la pasta che non è più solo quella De Cecco. Ho scritto varie volte all’assessore regionale Dino Pepe perché lo conosco da tempo, è di Torano Nuovo e abbiamo amici in comune, ma non ho mai ricevuto risposta. Forse crede che abbia bisogno di soldi dalla Regione, ma figurarsi: non me ne frega niente. La cosa buffa è che io ho perfino organizzato eventi per promuovere le Marche. L’America non è così lontana come una volta e l’Abruzzo è una regione strepitosa solo che gli americani la conoscono come 20 anni fa. E conoscerla significa non solo degustare l’enogastronomia ma anche venirci in vacanza. Sono anche disposto a mettere i miei locali gratis e a parlarne perché, da abruzzese, mi fa rabbia».

Torna spesso in Abruzzo?

«Si, per trovare la mia famiglia e per andare al mare a Tortoreto».

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