Cappadocia, l’ex paese dei mulattieri

In cinquant’anni gli abitanti da cinquemila sono diventati 550 e molti dai muli sono passati a guidare i taxi a Roma

CAPPADOCIA. “Voglio andare a Cappadocia/ dalla zia Costanza/. Mettetemi sul mulo che sa la strada/. Ah, come si respira bene/ nei boschi di castagne!". Così Gabriele d'Annunzio nella tragedia "La fiaccola sotto il moggio". A Cappadocia il Vate, ammalato di asma, trascorse l'estate del 1889. E rimase stregato dalle bellezze paesaggistiche del paese e dalla vita semplice e operosa degli abitanti. Quel mondo, per il quale il poeta abruzzese provava una struggente nostalgia, oggi non esiste più.

I vecchi sentieri non sono più percorsi dai montanari, ma da escursionisti che fuggono dallo smog e dal caos della città. E di donne con le conche in testa, che andavano ad attingere l'acqua alle "fredde sorgenti del Liri", non se ne vedono più. Non solo.

MULI E TAXI. Quel paese, che un tempo brulicava di gente, a poco a poco, si è andato spopolando. Nel 1961 gli abitanti di Cappadocia, a 1100 metri di altitudine, erano oltre 5mila. Oggi sono 550. Lo spopolamento è iniziato dopo che i residenti, non ritenendo più remunerativa l'attività boschiva, sono emigrati. Molti si sono trasferiti a Roma, dove da mulattieri sono diventati tassisti. Ma al mulo, che tanta parte ha avuto nella storia di questa comunità, Cappadocia ha voluto rendere onore, erigendogli un monumento nella piazza principale.

Lo spopolamento dovuto alla crisi delle attività tradizionali - trasporto del legname, zootecnia, artigianato - si poteva arginare puntando sul turismo. L'idea, intorno alla metà degli anni Sessanta, di dar vita a un centro sciistico, a Camporotondo, a 1450 metri di altitudine, rispondeva a questa esigenza. L'afflusso turistico avrebbe creato occupazione e ridato ossigeno all'economia. Iniziativa analoga è stata presa dal Comune di Tagliacozzo, con Marsia, definita la "Cortina d'Abruzzo". Ma mentre questa, per beghe tra fazioni, dopo un promettente avvio, è stata abbandonata al proprio destino, il Comune di Cappadocia ha dotato Camporotondo di infrastutture: rete idrica e fognaria, strade, depuratore - non ancora attivato perché manca il collaudo - strutture ricettive, un parco giochi e una chiesa.

Purtroppo da diversi anni gli impianti sciistici sono fermi e le migliaia di appassionati di sport invernali, soprattutto romani, che, per la vicinanza, possono scegliere Camporotondo, se ne vanno altrove. «Per rimettere in funzione gli impianti», spiega il sindaco, Lucilla Lilli , «servono tre milioni. Abbiamo presentato il progetto alla Regione. Ma i soldi ancora non si vedono».

È così che la Regione intende risollevare le sorti delle zone interne? L'attivazione degli impianti sciistici di Camporotondo darebbe impulso all'economia non solo di Cappadocia, ma dell'intera Marsica occidentale. Se ciò non avverrà, Cappadocia rischia di allungare la fila dei paesi-fantasma dell'Abruzzo interno.

«Senza Camporotondo, Cappadocia è morta», sentenzia Angelo Ferrazza, titolare del bar in piazza, «di gente qui se ne vede sempre meno». «Stamattina», interviene la moglie, Francesca, «ho acquistato cinque cornetti. Due li abbiamo mangiati io e mia figlia. Gli altri tre, come vede, sono rimaste invenduti. Dica lei se si può andare avanti così».

IN VENDITA. Fino a qualche anno fa erano molti i romani che, possedendo a Cappadocia la casa, venivano a passare il week end e le ferie. Con la crisi, la situazione è cambiata. Tanti non solo non vengono più, ma hanno messo anche in vendita la casa, per non pagare l'Imu. Trattandosi di seconde case, al Comune, che, all'infuori dei boschi, non dispone di altre risorse, l'Imu assicura un introito annuo di 800mila euro.

«Purtroppo», rileva il sindaco, «lo Stato ci impone di versare la metà di questa somma al fondo di solidarietà comunale». Vincenzo Ciccarelli, incontrato in piazza, si offre di farci da guida. Il padre Antonio, mulattiere, nel 1952, si trasferì a Roma con la famiglia, trovando lavoro prima all'aeroporto di Ciampino e successivamente a quello di Fiumicino. Vincenzo, che allora era un bambino, è vissuto nella capitale, dove ha lavorato come dipendente degli Aeroporti di Roma. Andato in pensione, è tornato a vivere a Cappadocia. I vicoli e le piazzuole deserti, attraverso i ricordi di Vincenzo, si animano di personaggi, come il mitico Cencio, deportato in Germania dai nazisti e, dopo la guerra, titolare del bar in piazza Del Colle, punto di ritrovo degli abitanti. E di eventi, come "Nonna Papera", una gara gastronomica che coinvolgeva l'intero paese.

IL SOGNO. Un po' più in là della chiesa di Santa Margherita, che il terremoto del 2009 ha reso inagibile, c'è la casa dove soggiornò d'Annunzio. Che rischia di crollare. Lucilla Lilli ci confida di avere un sogno: ottenere dai nipoti di zia Costanza la donazione al Comune della casa che ospitò d'Annunzio e farne un museo. «Sarebbe», osserva, «una fonte di richiamo turistico, come lo sono le grotte di Beatrice Cenci e il Centro visita grifoni, a Petrella Liri».

Lilli è alla guida di Cappadocia da due anni. Un prozio, Salvatore Lilli, trucidato nel 1895 in Armenia, insieme ad altri missionari, nel 1982, è stato proclamato beato da Papa Wojtila. La sua ambizione è di fare di Cappadocia un centro turistico in grado di competere con Ovindoli e Pescasseroli. Le idee non le mancano. Ma, con le casse comunali sempre più vuote, non può fare miracoli.

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