IL RACCONTO

Così ho scoperto la tragedia di Monongah

Il 6 dicembre 1907 un’esplosione nelle gallerie uccise centinaia di persone

Ci siamo riusciti. Finalmente. Dopo tre lunghi anni, centinaia di articoli, inchieste e «battaglie» mediatiche di Gente d’Italia, lo Stato italiano arriva finalmente a Monongah. Per commemorare ed onorare quei poveri resti sepolti cento anni fa su quella lunga striscia di terra senza croci, senza lapidi, senza nomi. Il viceministro Danieli ha mantenuto gli impegni. Aveva promesso «Sistemeremo il cimitero di Monongah». Lo ha fatto.

Arriva lo Stato italiano dopo cento anni durante i quali insieme con la grande America si era reso responsabile di omissioni e «insabbiamenti». Arriva con il senatore Franco Danieli, viceministro degli esteri e con la medaglia d’oro al Merito Civile attribuita alle vittime del disastro dal Presidente della Repubblica Napolitano. Ci siamo riusciti. Ed ora Padre Briggs, Susy Leonardis, Janet Salvati e Joseph Troppa, tutti gli abitanti di Monongah, tutti gli italiani d’America che per cento anni si sono sentiti traditi, abbandonati dal potere centrale, e da tutti i governi e governanti che si sono succeduti negli anni, possono mettere la parola fine a questa triste storia che la storia stessa ha tentato di seppellire sotto una colata di carbone nero, di diafana dimenticanza e di una strana, assurda manipolazione.

Ci siamo riusciti. Il nostro compito è terminato. Ora spetta alla politica, al governo, allo Stato tributare i giusti onori a quei poveri disgraziati che il 6 dicembre del 1907 entrarono senza volerlo nella storia. Una storia incredibile cominciata in una fredda sera d’inverno a New York. La storia di Monongah. «A proposito di italiani in America... pare ci sia un paese, qui negli Stati Uniti, dove in una sciagura mineraria sarebbero morti più di 500 italiani...

Il posto si chiama Mironga, Manonghi, non ricordo... E’ una storia incredibile» mi diceva il collega italoamericano, mentre aspettavamo hamburger e patatine in un piccolo ristorante di Manhattan. Una storia che, all’inizio, poteva sembrare una leggenda ma che si è rivelata nella sua inimmaginabile tragicità: quel paese dal nome strano esiste davvero, è Monongah in West Virginia, ed anche quei minatori morti ci sono stati davvero. Per arrivare a scoprire questa verità, abbiamo lavorato per mesi. Il collega italoamericano infatti non sapeva dirmi nulla di più.

Le sue erano informazioni vaghe, a partire dal nome del paese di questa ipotetica tragedia. Una storia che mi lasciava allibito, una tragedia più grande di quella di Marcinelle in Belgio, eppure non se ne è mai saputo niente. Così, mentre guidavo in direzione «aeroporto Kennedy», la mia mente era occupata da quei «500 morti italiani». Sentivo di dover verificare quel racconto e così, appena rientrato a Miami ho cominciato a cercare e scavare nel passato, tra mille difficoltà. LA STORIA DI MONONGAH. Per prima cosa, ho affidato l’incarico di avviare delle ricerche su Internet alle mie due figlie, Margareth e Francesca e a due miei redattori.

Dopo sei ore di «navigazione», poche righe vengono fuori utilizzando le parole chiave «miniera - americano - disastro». Si riesce a risalire al nome esatto del paese, Monongah, e a sapere che dista 185 miglia da Washington e che oggi ci abitano circa 445 famiglie, per un totale di 1018 persone distribuite su un’area di 1227 chilometri quadrati. Anche della tragedia c’è qualche traccia in Internet: in 19 righe è racchiusa la morte di 361 emigranti, rimasti sepolti nella miniera, la storia di 250 vedove e oltre 1000 orfani.

Quanto basta per decidere di andare fino in fondo. Dopo pochi giorni, quattro cronisti di Gente d’Italia con alla testa mia figlia Margareth, partono per Monongah. Il paese è sperduto tra le montagne, non ci arrivano i treni e neppure altri mezzi pubblici di trasporto. Io sistemo alcune cose, poi li raggiungo. Un viaggio che apparve subito «infinito». Chilometri e chilometri di curve, strade difficilmente percorribili. Neve, vento, poi finalmente l’arrivo in un villaggio, a quindici chilometri da Monongah, dove c’era un albergo. L’unico. Nella sala bar una cameriera serve ai tavoli.

Consumiamo una cena frugale. Mia figlia e gli altri cronisti, tra cui un operatore TV vanno a risposare. Io resto al bar. E’ l’ora in cui uomini e donne arrivano per bere una birra. Uomini in particolare. Con la fatica scolpita sul volto, le braccia muscolose. Sono minatori. Chiedo: «Qualcuno di voi sa qualcosa dell’esplosione di Monongah?». «Tu perché vuoi andare a Monongah?», dice un ragazzone dai capelli neri e lunghi, baffetti alla Arsenio Lupin. Gli spiego che sono un giornalista italiano che ha saputo per caso della tragedia. Smettono di bere, gli altri. E si avvicinano al bar. Da quel momento comincia il racconto dei minatori.

Ognuno ha in famiglia almeno una persona morta in quella sciagura. Chiedo loro di poter vedere la miniera. Subito. Non importa se è notte. Non importa se nevica. «Ok, andiamo...». Partiamo in nove, con due auto. Trenta e più interminabili minuti, in un silenzio religioso, poi, ci fermiamo in mezzo ad un prato. Alla mia destra una collinetta, nò, è una grotta, un ingresso. LUOGO SPETTRALE. I fari illuminano detriti, rami secchi e quel che resta di un edificio completamente abbandonato, sventrato in più punti. Mucchi di suppellettili arrugginite tra neve e terreno, un pezzo di elica, no, è una ventola enorme attaccata ad un qualcosa che sembra il motore di un aereo. Vorrei entrare nella miniera.

Impossibile non si può. Raffiche di vento gelido coprono un sordo rumore di acque in movimento. Il cielo è nero e nuvoloso. Penso, immagino i minatori mentre entrano in quella specie di spelonca... i bambini... Quando si scendeva in miniera, a quel tempo, si era accompagnati quasi sempre da un amico e spesso parente «non censito», cioè clandestino, in modo da ottenere un maggiore riconoscimento economico per il maggiore lavoro svolto in compagnia. Allora il diritto a un pezzo di pane si misurava sulla quantità dei pezzi di pietra sventrati. Più picconate, più carbone, più cibo. E per questo i padri si trascinavano i figli minorenni laggiù.

E per questo è ragionevole calcolare che i morti siano stati, in realtà, tre volte tanti. Rientro in albergo quasi in stato confusionale. Penso alla tragedia, ma anche allo «scoop». Mi rendo conto che si tratta di una storia enorme, che verrà certamente ripresa da tutta la stampa, nazionale e internazionale. Dormo poche ore. Alle sette del mattino siamo già in auto, con Margareth e l’operatore Tv: destinazione Monongah. Gli altri vanno in comune, a consultare gli archivi, alla redazione del giornale locale. A Monongah non c’è un albergo nè un ristorante, e i treni non passano. Solo vecchie case di legno, ma con il tricolore ai balconi.

Giriamo senza una meta fissa, cercando un qualcosa che ci faccia arrivare alla miniera abbandonata E finalmente veniamo «notati» da una pattuglia della polizia. A destare «sospetto» è la targa che viene da lontano. Spiego agli agenti chi siamo e la natura del nostro viaggio. E loro dopo qualche frase gracchiata alla radio di bordo ci scortano fin davanti al cartello su cui è scritto a caratteri cubitali Monongah. Un paesaggio da brividi ed un silenzio spettrale. Poche auto, pochissimi negozi, nessun essere umano. PADRE BRIGGS. Cerchiamo una chiesa, perchè una chiesa dovrà pur esserci nel villaggio.

Eccola, è una vecchia costruzione di legno e mattoni neri, con una grande croce sul tetto, e un prete paffuto e simpatico. Che mi suggerisce di andare subito a parlare con un certo Padre Briggs «Lui sa tutto della tragedia». Padre Briggs è un uomo piccolo, magrissimo, con gli occhiali. Ci accoglie in una stanzetta di una casa d’accoglienza per anziani da lui realizzata. E a bruciapelo mi dice: «Se sei italiano devi darmi una mano. Nello scoppio della miniera di Monongah sono morte più di 900 persone. Ma noi dobbiamo fare erigere un monumento alle donne, le vere eroine.

Ma prima di raccontare questa immane tragedia devi andare sul posto. Devi vedere con i tuoi occhi». Ritorno alla miniera abbandonata. Macerie, soltanto macerie. Il tempo si è fermato in quel luogo. E Monongah si è fermata con quella esplosione. Tornando in albergo la sala è affollata di gente. Sono minatori, con le loro famiglie. Un sindacalista prende la parola. «Perché non è mai venuto nessuno qui a ricordare i morti italiani? Anche gli africani hanno deposto la loro lapide». Quella gente condannata alla rimozione chiede un riconoscimento, e non avendo più giustizia da rivendicare, chiede il riscatto di quelle radici italiane che sono nel sangue della gente di Monongah.

Seguito da quella carovana che chiede solo pietà per quei morti, vado dal sindaco, una donna di origini lucane che ha perso il padre in quello sciagurato 6 dicembre 1907.«Scrivi, fai in modo che questa sciagura tutta italiana torni alla memoria Coinvolgi i politici, che vangano a sistemate i nostri morti». Vi prometto che porterò qui il nostro capo dello Stato. Una promessa grossa. Una promessa di un italiano che in quel momento si unisce al dolore della sua gente. Padre Brigs aspetta l’equipe per condurci al cimitero. «I morti sarebbero stati un migliaio, 960 per la precisione, prevalentemente italiani, e poi polacchi, turchi, irlandesi»- giura - Ma dove stavano i cadaveri, dove le lapidi? Il cimitero di Monongah è un pezzo di terra su una piccola collina circondata da vecchie case. Con qualche lapide.

«Sono sepolti qui, tutti qui, è un immenso ossario Perché oltre ai nomi di quelli conosciuti spiega Padre Briggs ci sono chissà quanti cadaveri di ragazzi». Un’enorme fossa comune. E qualche rara lapide deposta dalle famiglie. Con un grande albero che veglia. La valle della morte di Monongah oggi è circondata da case. Vita e morte si mescolano nel silenzio e nell’isolamento di Monongah. «Qui accanto c’era una donna quella donna meriterebbe un monumento». Padre Briggs mi fa vedere una montagna di carbone. «L’ha fatta lei quella montagna. Al momento dell’esplosione le sue urla furono disumane. Si strappò tutti i capelli.

Aveva perso tutto in quel disastro. La sua famiglia, la sua vita. E fino al suo ultimo respiro ha depositato palate di carbone nel giardino della sua casa nella speranza di ritrovare i corpi di suo marito e dei suoi figli». La solitudine, la desolazione delle donne di Monongah sono il simbolo di quella sciagura. Intanto la gente del villaggio, come in un pellegrinaggio, continua a raggiungere l’albergo. Consegnandomi in prestito ciò che possiedono di quella storia, di quel dolore collettivo che era nel volto di quella donna, Caterina Davia, che spalando carbone non aveva più lacrime.

Perché a Monongah è stato negato anche il diritto di piangere. LE RICERCHE. Intanto comincia una ricerca frenetica. I cronisti e gli inviati di Gente d’Italia consultano archivi, giornali dell’epoca, e le indagini si spingono fino a Washington e Philadelphia. Si mettono insieme i pezzi del puzzle e la storia tragica di Monongah inizia a mostrare contorni più chiari. La mattina del 6 dicembre 1907, giorno di San Nicola, 478 minatori e 100 uomini addetti ad attività accessorie entrano nei pozzi 6 e 8 della miniera di carbone. Dopo l’esplosione, si parla di 361 morti e nessun superstite ma le ipotesi sul reale numero delle vittime, in assenza di riscontri certi, sono legate allo studio dei cimiteri locali: il numero dei deceduti arriverebbe così a 500, ma non è ancora il bilancio finale: secondo una corrispondenza da Washington, datata 9 marzo 1908, i morti sarebbero stati 956.

Si tratta della «più grande sciagura della storia mineraria statunitense». I morti italiani ufficialmente sono 171, ma in realtà sarebbero molti di più, La maggior parte era originaria della Campania, del Molise, dell’Abruzzo e della Calabria. Una parte dei corpi recuperati riposano sulla collinetta del cimitero di Monongah. Dimenticati per quasi un secolo, a Muh-nahn-guh, che nella lingua degli indiani Seneca significa «fiume dalle acque ondulate». Degli attimi che seguirono quella tragedia restano moltissime fotografie, in bianconero o in un tenero seppia, scattate da fotografi che, immediatamente, le trasformarono in cartoline molto richieste che invasero l’America del disinganno.

Oltre 90 anni per riportare a galla una tragedia di immane proporzioni. Un disastro causato dai proprietari della miniera, La Fairmont Coal Company, che non avevano attivato l’impianto di aerazione, c’era dunque tutto l’interesse ad insabbiare l’accaduto. Il tempo dell’oblio per le vittime di Monongah sta però per scadere. Il 14 novembre del 2003, i sindaci dei comuni italiani dai quali partirono i minatori e un inviato del Vaticano sono venuti con noi nella cittadina, per piantare una croce nel cimitero in memoria di quei morti senza nome.

E qui mi corre l’obbligo di ringraziare le tre persone che hanno avuto un peso determinante nel far conoscere al mondo la tragedia di Monongah: il senatore Mario Baccini, sottosegretario agli esteri del governo di allora, l’ambasciatore Sergio Vento capo della nostra diplomazia negli Usa ed il collega Paolo Peluffo direttore del Dipartimento per l’informazione e l’editoria, a quel tempo portavoce del presidente della repubblica Ciampi e capo dell’ufficio stampa del Quirinale. Fu grazie ai loro buoni uffici che riuscimmo ad organizzare l’incontro verità su Monongah, che stava «saltando» perché poche ore prima, a Nassiriya, 12 carabinieri, 4 soldati e numerosi civili persero la vita per un attacco kamikaze contro la nostra postazione.

CANISTRO. Ciampi rimase profondamente colpito dalla sciagura, e da allora è cominciata un’altra e più difficile ricerca nella quale abbiamo coinvolto una lunga serie di collaboratori. Sono andati in giro per l’Italia, nei paesi dai quali partirono i minatori di Monongah. Ed hanno scritto pagine e pagine. Storie amare di contadini sradicati dalla terra, poveri, in gran parte uomini e adulti. Storie alle quali tutti noi stiamo ancora lavorando, affinchè le inchieste e le ricostruzioni promosse dai giornalisti di Gente d’Italia rimettano anche i numeri, oltre che i nomi, al loro posto tenero e agghiacciante.

Stiamo lavorando con Susy Leonardis, instancabile, tenace napoletana del New Jersey, la vera ispiratrice della riscoperta di Monongah. Fu lei a parlarne al collega italo-americano che non aveva capito l’entità della tragedia. Stiamo lavorando con Joseph Tropea, il professore emerito della George Washington University, che continua la sua ricerca dei parenti delle vittime. E’ soprattutto merito suo se siamo riusciti a contattare in Italia, figli e nipoti di quei poveri disgraziati.

Ed è merito di tutti gli abitanti di Monongah che ci sono stati vicino fin dal primo giorno e che ci hanno aiutato mettendoci a disposizione documenti, foto, libri, se questa triste storia è ritornata alla luce. Merito di quel grande sacerdote che è stato Padre Briggs. Ringrazio il Consiglio Comunale di Canistro per avermi concesso la cittadinanza onoraria e ringrazio il vice ministro degli esteri Franco Danieli per aver promesso e poi attuato, senza esitazione, di onorare in nome dello Stato italiano quei poveri resti di Monongah, diventata ora un simbolo. Finalmente.

Adesso, cento anni dopo, il ricordo del 6 dicembre si tinge soprattutto di futuro: che fare per preparare il secolo di memoria, come lasciare scolpito il senso di quell’esilio di cui s’era persa ogni traccia in che modo raccontare ai ragazzi di domani che tanti ragazzi di ieri hanno pagato con la vita il prezzo della loro debolezza: senza patria e senza lingua, né italiana né inglese, ché solo il dialetto parlavano. Non è stato bello, emigrare. Non è stato generoso, coi giusti, il carbone rosso di Monongah. Rosso di sangue, la sola cosa che ha finito per accomunarli tutti, e che il tempo - saggio - non è capace di dimenticare.