Pescara, scandalo appalti alla AslSequestrato il "tesoro" di D’Intino

Sigilli al conto da 800 mila euro: sproporzionato rispetto al reddito. L’operazione della Mobile dopo il decreto firmato dal pm Varone. Ma si attendono nuovi sviluppi

PESCARA. Quattro giorni dopo gli arresti, scattano i sigilli per il «tesoro» di Franco D’Intino, il funzionario della Asl di Pescara finito in carcere con l’accusa di corruzione, truffa e falso ideologico nell’inchiesta sull’appalto per il nuovo dipartimento Materno-infantile dell’ospedale «Spirito Santo». Ottocentomila euro in titoli e contanti sono stati sequestrati dalla squadra Mobile di Pescara sulla base del decreto d’urgenza firmato dal sostituto procuratore Gennaro Varone e controfirmato dal procuratore aggiunto Cristina Tedeschini.

Alle prime ore di ieri, gli uomini del vice questore Nicola Zupo hanno notificato l’atto che blocca il conto, aperto sulla filiale di una banca locale in provincia di Pescara, su cui sono stati rinvenuti contanti per 52 mila euro e titoli per circa 750 mila euro. Una cifra importante, la cui consistenza è stata scoperta dopo un primo esame dei documenti sequestrati lunedì scorso nell’abitazione di D’Intino a Turrivalignani: dalle carte è emerso l’ultimo estratto conto, che indicava, peraltro, una cifra ancora più alta. Una somma che, secondo gli inquirenti, sarebbe sproporzionata rispetto allo stipendio dell’ingegnere: sulla base dei dati pubblicati dalla Asl sulle retribuzioni dei dirigenti, infatti, Franco D’Intino può contare su un guadagno totale annuo (lordo) di 66.714 euro.

Al momento, tuttavia, non c’è alcuna evidenza che le somme rinvenute abbiamo una provenienza illecita: il sequestro preventivo del conto (cointestato alla moglie di D’Intino) è stato eseguito infatti sulla base dell’articolo 12 sexties della legge 356 del 1992, che colpisce le manifestazioni di ricchezza ritenute sproporzionate rispetto al reddito. La norma, dunque, inverte l’onere della prova a carico della persona che subisce il provvedimento, che ora dovrà spiegare quale sia l’origine di una simile disponibilità economica.

È il primo atto di quelli che potrebbero essere i nuovi sviluppi dell’inchiesta: gli inquirenti, dopo essere intervenuti per evitare nuovi reati (come ha sottolineato il gip Guido Campli nell’ordinanza di custodia cautelare, affermando che prove documentali sarebbero già state distrutte dall’imprenditore), stanno adesso ripercorrendo a ritroso la storia dell’appalto e verificando quali siano stati, e quanti, i lavori per i quali D’Intino sarebbe stato responsabile unico del procedimento (sembra una ventina). Allo stesso tempo, sono sotto esame tutti i conti e le attività professionali degli indagati.

Di eventuali passaggi di denaro non c’è traccia nell’ordinanza di custodia cautelare: secondo l’accusa, infatti, le presunte tangenti percepite da D’Intino sarebbero state la forniture di mattonelle e i lavori di ristrutturazione di un’abitazione di famiglia a Scafa, più «altre dazioni non meglio accertate per un importo complessivo non inferiore a 40 mila euro, e verosimilmente superiore».

Per i due direttori dei lavori Alfonso Colliva e Damiana Bugiani, che ieri si sono difesi davanti al gip Campli alla presenza del pm, invece, le presunte tangenti sarebbero state le parcelle percepite dalla Asl («il denaro è pubblico, ma la fonte è corruttiva» afferma Campli) in cambio dell’omissione del controllo, con i direttori dei lavori «che nulla devono fare per guadagnare il denaro loro corrisposto dall’ente pubblico, se non sottoscrivere la contabilità preparata dall’impresa».

A questo hanno risposto ieri, durante gli interrogatori nell’aula 6 del tribunale di Pescara, i due professionisti da lunedì agli arresti domiciliari, Colliva (ingegnere) e Bugiani (architetto), difesi rispettivamente dagli avvocati Angelo Fingo e Anna Maria Petrei Castelli. Entrambi hanno negato le accuse, spiegando che la contabilità veniva preparata dall’impresa, per poi essere sottoposta al loro controllo.

«Lo stato di consistenza dei lavori viene sempre fatto dall’impresa» ha spiegato Fingo, «su questi dati viene eseguito un controllo per accertare che quello che viene sostenuto dalla ditta corrisponda al vero. Ma ci sono stati anche i sopralluoghi nel cantiere, un controllo abbastanza capillare, come risulta dalle loro firme: una attività di controllo che poi è confluita in una attività parallela richiesta dalla Asl, poi trasfusa in alcune relazioni peritali». In sostanza, dunque, secondo i difensori, l’azienda avrebbe inviato alla direzione dei lavori «un canovaccio» che poi Colliva e Bugiani avrebbero verificato: «Tenendo conto che il Sal (lo Stato di avanzamento dei lavori, ndr) non è un dato immutabile, ma è l’approvazione di massima di una consistenza dei lavori» ha spiegato ancora Fingo. «È la verifica finale che attesta in modo preciso la reale consistenza delle opere». Dichiarazioni che, hanno sottolineato i difensori, possono essere controllate verificando «tutte le relazioni peritali e i documenti protocollati dalla Asl che attestano l’attività dei direttori dei lavori a beneficio dell’azienda».

Per l’accusa, al contrario, i due professionisti si sarebbero piegati a tal punto alle richieste della Cre Impianti tecnologici, che persino uno degli arrestati, Giacomo Piscitelli, uomo di fiducia dell'uomo, avrebbe commentato, scrive il gip, che «il fatto che i due “cicci belli” abbiano guadagnato decine di migliaia di euro senza fare nulla sarebbe stato “uno sfregio alla comunità”».

 

© RIPRODUZIONE RISERVATA