Quel giorno sventurato, spartiacque di una storia

Il dolore dei primi giorni ha lasciato lentamente il passo al grigio dei detriti. La solidarietà dopo la tragedia è andata stemperandosi, e l'immagine dell'Abruzzo dopo il terremoto dell'Aquila è diventata quella della valanga di Farindola. Un'immagine inconciliabile con il turismo e il piacere di vivere

Ci sono momenti nella storia di una comunità in cui il lutto privato si intorciglia come un’edera intorno alla miseria pubblica formando nodi quasi inestricabili. E’ accaduto in Abruzzo, due mesi fa, il 18 gennaio, il giorno in cui una valanga ha distrutto l’Hotel Rigopiano a Farindola, portando via con sé 29 vite umane.
Il dolore privato delle famiglie e degli amici di chi non c’è più è ancora congelato come il primo giorno nel bianco della neve che lì, alle pendici del Gran Sasso, ha lasciato il passo lentamente al grigio dei detriti e dei resti del fantasma dell’albergo e al marrone della terra ancora brulla di questo inverno crudele che si accinge, finalmente, a piegarsi alla necessità di un commiato. L’elaborazione del lutto è un viaggio lungo e accidentato verso il traguardo di un ricordo rasserenato delle persone care che abbiamo perduto; una meta che, per quanto desiderata, può capitare di non raggiungere mai.
Il modo in cui si affronta questo cammino è personale, differente per ciascuno di noi. Quel dolore privato, familiare, e il suo misterioso, possibile antidoto abitano una terra delicatissima in cui anche gli angeli hanno paura di muovere un passo. Ma questo fazzoletto di terra è un luogo contiguo a una più vasta landa in cui la comunità alla quale appartengono i morti riflette sulle ragioni della sventura, sulle responsabilità dei singoli e degli organismi che dovrebbero governare le vite dei suoi membri, e si interroga, infine, sulla propria capacità di impedire che i lutti si ripetano. Questa riflessione collettiva si muove lungo un sentiero parallelo a quello percorso a fatica dall’elaborazione del lutto.
Ma i tempi di questo esame di coscienza al quale è chiamata la comunità abruzzese è necessario che siano più veloci di quelli di chi cerca a tentoni un farmaco per il dolore ancora vivo per la perdita. Questa celerità la impongono non solo bisogni di natura economica e materiale, ma anche esigenze che nascono dal modo con cui la regione viene percepita al di là dei suoi confini, proprio a causa del disastro che oggi compie due mesi.
La solidarietà che l’Abruzzo ha ricevuto nei giorni immediatamente successivi alla tragedia di Farindola si è stemperata in una memoria ogni giorno più flebile, mano a mano che le notizie e le immagini hanno lasciato il campo ad altri lutti, nella grammatica quotidiana, crudele ma inevitabile, a cui obbediscono giornali e tg.

Il taccuino dei dolori sul quale chinare il capo nella riflessione è folto di pagine sulle quali sono annotate assenze e inadeguatezze che impediscono di imputare tutta intera la tragedia all’inevitabilità del destino: gli spazzaneve e le turbine che mancavano o erano insufficienti o disponibili solo in ritardo; la lentezza con cui si mise in moto la “macchina dei soccorsi” fanno pendere il braccio della bilancia dalla parte dell’inadeguatezza umana più che da quella della crudeltà del caso. Lo straordinario eroismo di chi per giorni ha cercato di salvare ciò che restava ancora di vivo sotto le macerie dell’Hotel Rigopiano non può far dimenticare le insufficienze umane e organizzative. Fu una giornata tremenda quella del 18 gennaio, fra scosse violente di terremoto e nevicate inarrestabili che precedettero e seguirono la tragedia. Il confluire di eventi naturali disastrosi in un solo punto dello spazio e del tempo, in Abruzzo, fa pensare al collasso di una stella; e fa di quel giorno sventurato uno spartiacque fra un prima e un dopo nella percezione che gli altri hanno dell’Abruzzo. Per chi ha seguito davanti alla televisione o attraverso le pagine dei quotidiani quelle giornate di interminabili speranze e disperazioni, la regione dei parchi è diventata all’improvviso un luogo dove è rischioso vivere, una terra inconciliabile con i progetti di svago di una vacanza o di una semplice escursione. Nell’immaginario collettivo all’Abruzzo del terremoto dell’Aquila si è aggiunto l’Abruzzo della valanga di Farindola. E’ contro questo comune sentire che vorrebbe inchiodare la regione a un destino luttuoso che bisogna reagire. Lo chiede la memoria del passato, dei 29 morti dell’Hotel Rigopiano, ma anche un naturale desiderio di futuro. Il rischio, infatti, è di restare paralizzati nel passato, accettando il lutto di due mesi fa con l’atto di fede disperata del narratore del “Ponte di San Luis Rey”, che cerca una ragione per la morte di cinque persone che si trovavano per caso a percorrere i pochi metri di quel tragitto sospeso fra due montagne: «Alcuni sostengono che non sapremo mai, che per gli dèi noi siamo come le mosche uccise dai bambini nelle giornate estive. Altri dicono che perfino i passeri non perdono una penna senza che il dito stesso di Dio si muova per farla cadere».
Giuliano Di Tanna

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