Un pasticciaccio brutto a Napoli

Il giallo di un cadavere in cerca di autore nel nuovo libro di Andrej Longo.

«Stava sdraiata per terra, tra le scale e il portone dove mi trovavo io, con la faccia girata verso il pavimento. E stava intorcinata su se stessa, come a una gatta che dormiva. ma lei non dormiva. Era morta».
E’ di Sarah il corpo che il poliziotto Acanfora scopre nell’androne di un palazzo al numero 7 della borghesissima via di Parco Mastriani, in una Napoli soffocata dal caldo di un giorno di agosto della metà degli anni Novanta.

Quel corpo adolescente è il testimone muto di «Chi ha ucciso Sarah?» (Adelphi, 177 pagine, 17 euro), il nuovo romanzo di Andrej Longo, lo scrittore napoletano con un passato (neanche troppo remoto) di bagnino e piazzaiolo, che, due anni fa, è stato il caso letterario del 2008 con il suo «Dieci», una racolta di racconti sulla Napoli di oggi.
Alla domanda del titolo - Chi ha ucciso Sarah? - cerca di rispondere Acanfora, il poliziotto campano che racconta la storia, ragionando e parlando in un italiano-napoletano che ricorda il romanesco-molisano di don Ciccio Ingravallo, il commissario che conduce l’indagine per antonomasia della letteratura italiana del Novecento, quella di «Quer pasticciaccio brutto de via Merulana» di Carlo Emilio Gadda. Un giallo metafisico senza soluzione - quello dell’Ingegnere in blu - che questo bel romanzo di Longo riecheggia nella sua dimensione di apologo sulla realtà italiana perenne. Come racconta l’autore in questa intervista al Centro.

Perché un giallo a Napoli?
«Più che un giallo, direi che il libro è un modo per parlare di Napoli e dell’Italia».
Perché allora questa storia di un cadavere in cerca di autore nela Napoli di metà anni Novanta?
«Ci sono varie ragioni. Che la storia sia ambientata quindici anni fa si capisce da una serie di fatti: dai primi cellulari, a Maradona, ai computer dell’epoca. L’ho ambientata negli anni Novanta perché non volevo che fosse letta subito come una storia sulla Napoli di oggi. Invece questa storia, per alcuni versi, più che Napoli, racconta l’Italia di oggi con la sua solitudine, l’indifferenza, la difficoltà di comunicazione, l’egoismo, la paura del diverso e di chi viene da fuori. Il riferimento alla città riguarda soprattutto il fatto che la storia è ambientata in quella borghesia napoletana che è al centro di una discussione ormai secolare».

La discussione che riguarda la sua poca incisività nella storia della città?
«Sì. E il suo ruolo poco incisivo e sempre subalterno al potere che è tipico di un ceto che non sa prendersi le sue responsabilità e farsi classe dirigente. E’ una tara antica che, dopo gli anni Ottanta, è diventata ancora più esplicita. Il mio non è pessimismo ma semplice constatazione come di chi dica: la situazione a Napoli è questa, la borghesia qui non riesce mai a farsi classe dirigente».

La lingua che usa, un pastiche di italiano e napoletano, ricorda il romanesco-molisano del «Pasticciaccio»: è un omaggio consapevole a Gadda?
«Me l’hano detto in tanti. Ammiro Gadda ma non c’è stato alcun tentativo di imitazione».

Perché il poliziotto Acanfora, il narratore che è anche il protagonista, usa quella sua lingua-dialetto?
«Mi interessava il punto di vista del protagonista. E’ un giallo anomalo, ripeto. Non credo, infatti, che esistano dei gialli in cui il protagonista sviluppi una storia che mostra, innanzitutto, il suo cambiamento: la storia di Acanfora viene raccontata mentre lui fa le indagini sulla morte di Sarah. Ciò che a me interessava era il suo punto di vista sulla storia. Ho usato quella lingua proprio perché lui parla e pensa in quella lingua».

Nel «Pasticciaccio» Gadda lasciava irrisolto, in qualche modo, l’omicidio, quasi presagendo la natura indecifrabile dei misteri italiani. Nel suo romanzo il mistero si risolve ma non nel senso che il lettore si aspetterebbe: perché?
«In effetti si puo dire che nella storia non c’è alcun mistero. O meglio: il mistero fondamentalmente è nella testa di Acanfora. Alla fine, in realtà, il mistero è risolto. C’è una colpa collettiva e precisa che va al di là della colpa di un singolo. E’ una storia, insomma, in cui i protagonisti sono obbligati a prendersi delle responsabilità, al contrario di ciò che accade nell’Italia di oggi dominata dalla tendenza a dare la colpa sempre agli altri: all’arbitro, all’avversario politico, al vicino di casa. E’ un atteggiamento un po’ infantile. Nel mio libro, invece, il protagonista, lui stesso ingenuo e un po’ infantile, cerca a tutti i costi di individuare una responsabilità».

Napoli era al centro anche dei racconti del suo precedente libro, «Dieci»: la città è centrale per la sua immaginazione di narratore?
«In alcuni casi, sì. In “Dieci” avevo voluto raccontare le periferie della città. Mi è sembrato giusto completare il racconto con un libro che parlava della borghesia. Anche per rispondere a chi mi chiedeva: “Ma perché non parli delle cose belle di Napoli?”. “Chi ha ucciso Sarah?” è anche una risposta polemica a quella domanda».

Scriverà ancora di Napoli?
«Penso che non racconterò più Napoli nel mio prossimo libro. Ho voglia di parlare di altro, di sposate altrove il mio obiettivo. L’Italia è talmente piena di cose da raccontare. E’ così difficile, invece, raccontare Napoli e, allo stesso tempo, l’Italia. Con altre città lo puoi fare più facilmente. Con Napoli no».