CARTA MONDO

Il mito della fine del lavoro

Negli anni Trenta dell’Ottocento in Inghilterra scoppiò una polemica furibonda sui binari ferroviari. “In nessun caso – si diceva – si sarebbe trovato abbastanza ferro per la rete ferroviaria inglese (allora progettata ancora in proporzioni ridottissime). Bisognava fare correre le vetture a vapore su strade di granito”. Lo racconta Walter Benjamin in un appunto dei “Passages di Parigi”. Questa bizzarra previsione mi rincuora quando leggo quelle (più ponderate) sulla fine del lavoro. Lo storico israeliano Yuval Noah Harari, per esempio, su The Guardian, ci ricorda, anche lui, che “molti mestieri potrebbero sparire nel giro di pochi anni” (trovate l’articolo su Internazionale del 18 agosto). Certo, nasceranno nuove professioni, assicura Harari, come quella di designer di mondi virtuali, ma è improbabile che un tassista disoccupato a causa dell’introduzione dell’auto senza conducente possa riciclarsi in questo campo. O che possa farlo un assicuratore licenziato perché al suo posto lavora un algoritmo. Dunque la tecnologia, prevede lo storico, renderà inoccupate masse sterminate di uomini, ed “entro il 2050 emergerà una nuova classe di persone: la classe inutile”. E che cosa farà tutto il giorno la classe inutile?. “Giocherà ai videogiochi”, dice con certezza Harari. “Le persone economicamente superflue trascorreranno sempre più tempo all’interno di mondi virtuali tridimensionali, capaci di dare loro molte più emozioni del mondo reale”. Una condizione, avvisa lo studioso, per nulla inedita: perché l’uomo è abituato fin dall’antichità a costruire attorno a sé mondi virtuali. Si pensi alla religione o a certi rituali come il combattimento di galli a Bali. Ma questo mondo di persone perse nella loro realtà virtuale ci piacerà? Risponde Harari: “Che ci piaccia o no, è il mondo in cui viviamo da migliaia di anni”.