Lettera, 5 anni dopo

Ciao ragazzi, eccomi di nuovo qui. Vi scrivo in una sera d'aprile. Il sole è già sceso da un pezzo. Il buio è rotto dalle luci fioche che spuntano rade sul vuoto del nostro paese distrutto: Onna. Dal nuovo villaggio le voci non arrivano, si ode solo il rintocco della campana che batte le ore di una giornata che si spegne come una candela a corto di cera.

Solo l'abbaiare dei cani mi dice che fuori la vita continua. Comunque.

Sono cinque anni che non ci siete più. Sono cinque anni che muoio ogni mattina pensando ai vostri volti sorridenti, alla vostra voglia di vivere, ai sogni perduti. Sono rimasti solo i miei, di sogni, quando, in quelle poche ore che riesco ad assopirmi , frecce di fuoco mi colpiscono all'improvviso. L'abbraccio forte forte finisce sempre con l'incubo del risveglio.

Cinque anni, un'eternità lunga 23 maledetti secondi. L'ultimo ricordo: quel grido disperato perduto nella notte che spezzò l'anima e il cuore di chi fu condannato a restare.

Ho tante cose da raccontarvi. Eppure stavolta faccio fatica. Mi sento come quelle mosche fastidiose che vi giravano intorno quando al mattino la camera da letto si inondava di luce e voi volevate restare ancora un po' a crogiolarvi fra le coperte, a immaginare una giornata a correre fra i prati, inseguire un cagnolino, rotolarvi fra l'erba, montare in bicicletta, dissetarvi alla fontana e poi tornare casa, sedere a tavola con mamma e papà, condividere il pasto, organizzare il futuro. Le piccole cose che fanno la felicità di una famiglia normale. Però la realtà avanza sempre, a volte ci schiaccia, si impone.

Onna è ancora lì. Muta, svanita, spettrale. Negli angoli più nascosti la natura si contorce, scalpita, non s'arrende. Dove c'erano le case sono spuntati salici, acacie, pioppi, fiori di ogni genere. La gente attende ancora che nascano i cantieri. Anche quest'anno temo che non ce ne saranno. Da lontano si scorge una sola gru. E' quella dell'impresa che sta ricostruendo la nostra bella chiesa con i soldi che sono arrivati dalla Germania.

Sta rinascendo pietra su pietra e sono proprio loro, le pietre, che ci raccontano la lunga storia del borgo in cui avete avuto la sventura di nascere. Era il paradiso, e si è trasformato in inferno. Era luogo di colori ma la mattina del sei aprile 2009 restava solo un grigio polveroso punteggiato da cromatismi confusi, segno di esistenze esplose, dissolte, impotenti.

Il piccolo tempio, dove il giorno prima eravate stati a Messa per ricevere il ramoscello d'ulivo, ci racconta i secoli. Fra le mura sventrate sono spuntati gli affreschi. A pezzi. Ce n'è uno solo che ancora testimonia la fede di chi c'era già nel XIII secolo: una crocifissione. Chissà, forse un segno che ci ammonisce che la Croce è il destino di ognuno di noi al quale non si sfugge.

Ma ci sono anche tracce di gioia e fertilità. Sono scolpite in una colonnina, alta non più di mezzo metro e larga pochi centimetri. C'è l'uccellino posato su un tralcio di vite da cui pendono gustosi grappoli d'uva. Chi sa leggere il passato la fa risalire addirittura all'anno Mille o poco più quando Onna era ancora circondata da una vasta palude alimentata, nel corso delle stagioni, dal fiume Aterno che si aggirava nella valle senza freni. Quell'uccellino mi ricorda il cinguettio soave di quella mattina d'aprile di 5 anni fa. Quel suono galleggiava nell'aria posandosi poi sulle macerie delle vostre vite. Nel nuovo edificio sacro ci sarà una cappella nella quale una piccola lampada ricorderà per sempre il dolore della notte che ha cambiato la storia di quest’angolino d’Abruzzo. E che ci ha tolto voi. Con mamma siamo sempre nella casetta che abbiamo ricostruito con dentro la nostra biblioteca e tante vostre immagini che ci fanno compagnia. Il frutteto della memoria cresce. La statua della Madonna di Lourdes di cui vi avevo parlato lo scorso anno è in uno spiazzo verde, illuminata anche di notte. La nostra vita continua nonostante tutto. Gli affanni della giornata finiscono sempre in serate malinconiche affogate nella lettura di un libro o, massimo del divertimento, in un cruciverba. Tutto in attesa di un sonno che non arriva mai. Di notti più temute dei giorni. Di risvegli _ si fa per dire _ senza tempo, senza futuro. Chissà, magari vorreste sapere se quel piccolo mondo che avete conosciuto sta risorgendo. Certo girando un po' per il centro storico dell'Aquila di cantieri se ne vedono. Ma c'è una strana sensazione che mi prende ogni volta. Forse mi sbaglio. Ma è come se, chi in quell'ora tragica ha perso tutto, continua a non avere nulla, anche se il cemento ricompone gli edifici piegati. Vedo case ricostruite, gente che addirittura festeggia il rientro come se si trattasse di un matrimonio o di un compleanno. E poi discussioni, liti, ricorsi giudiziari. Una corsa folle verso il niente di una città che continua a guardare all'oggi e ai piccoli affarucci del momento, dimentica il passato, evita di pensare al domani. Ma il quadro non è sempre così nero. I vostri amici ci danno segni continui che vi tengono sempre in un angolino del cuore.

Sai, Maria Paola, quest'anno la scuola che frequentavi, il liceo linguistico, ti ha intitolato un'aula. Certo, forse adesso sorriderai, mai avresti pensato che il tuo nome potesse finire su una targa-ricordo. In quella scuola ci andavi con l'obiettivo di uscirne un giorno con gli strumenti giusti per affrontare la vita. E invece tutto ti è stato negato. Tutto ti abbiamo negato e tu sei andata via dopo quell'ultima carezza che tuo padre, che a volte si sente un po' Giuda, ti diede prima di un giorno che non ci sarebbe più stato.

Sai Domenico, qui, all’esterno della nuova casetta, c'è sempre tanto da fare: piantare fiori e alberi, potare, irrigare, zappare - sì anche zappare. Ora con l'arrivo della primavera l'erba cresce a vista d'occhio ed è una "battaglia" tenerla a freno. A volte penso che quel lavoro, che serve anche a ingannare il cervello , sarebbe stata una gioia se ci fossi stato tu a darmi una mano. Ricordi quando mettevamo a posto la legna o raccoglievamo le mele da quell'albero del giardino che ne faceva a quintali tanto da piegare i rami fino al suolo. E poi fermarsi un attimo seduti a terra, sotto l'ombra del tiglio, a ridere di noi, fingere la lotta e stringerci un po' in attesa del pranzo che mamma stava preparando. Quel tiglio oggi lo ricordo perché fu lì sotto che la mattina del sei aprile, poggiato su una sedia, affogai nelle lacrime e nella disperazione.

Sono passati 5 anni. Né all'Aquila, né a Onna, né altrove, c'è un posto degno per ricordare voi, nonno, e tutti coloro che hanno condiviso la vostra sorte. Ormai ho capito che chi non ha conosciuto i vostri e tutti gli altri volti, vuole dimenticarvi in fretta.

State sicuri di una cosa. Io non vi dimentico. Anche perché sarebbe impossibile. Non ci siete ma so che mi girate sempre intorno. Come a volte facevi tu, Maria Paola, quando entravi in biblioteca e mi trovavi seduto davanti al computer. «Papà, ma che stai a scrive» dicevi, facendomi capire che mi dovevo alzare perché il computer ti serviva.

Oggi scrivo di te, di voi. Inchiodato su una sedia con il cielo che ormai si è fatto di stelle. Sai quanto vorrei alzarmi e lasciarvi il mio posto. Ma è solo un altro sogno destinato a diventare incubo. Ciao ragazzi, prepariamoci a un altro anno. E non vi allontanate troppo. Insieme avremo meno paura del buio della notte infinita.

Papà.