Lettera ai miei figli, otto anni dopo

E' tornata. Otto anni dopo. E' la notte più lunga. Quella che nessuno può illuminare. Sono passati quasi tremila giorni. Non ce ne è stato uno in cui i vostri volti non siano entrati sin dentro i miei gesti più semplici. Il tempo del dolore è come un fiume. Nasce da una polla d'acqua sperduta sul monte, scende giù a balzelloni, si acquieta lungo la valle e poi placido porta le sue acque nel mare. Nel mare il vento solleva le onde, le tempeste si abbattono furiose, i lampi rompono le nubi nere. La piccola polla del dolore si immerge nella sofferenza infinita in cui trovi le sventure del mondo. Pochi mesi fa, ad Amatrice, il dolore mi è apparso di nuovo fra la polvere grigia e acre di un paese che da prezioso diamante incastonato in un paesaggio incantato è diventato luogo di lutto e disperazione. Raccontare a voi questo anno appena trascorso è come rivedere un vecchio film. Conosci la trama, hai ben impresse nella mente le scene più importanti, sai tutto dei dialoghi. Eppure ti sorprendi ancora. Non ci si abitua alla morte. Non si deve. Ho raccontato di ragazzi che in quel borgo antico trascorrevano gli ultimi scampoli delle vacanze estive ma che a scuola non torneranno più. Ho visto balocchi inermi davanti a case diventate tomba di bimbi appena sbocciati alla vita. Ho sentito il grido disperato di chi stava perdendo anche le lacrime. Il terremoto è qui, inutile illudersi. In una città, L'Aquila, che dopo otto anni è ancora lontana dell'essere ricostruita il tremore è diventato di nuovo paura, la precarietà uno stile di vita, il futuro l'enigma più oscuro. Nella nostra casetta di via Massale la vita continua ma è come una barchetta che rischia ogni attimo di essere travolta dai perfidi flutti. Tenerla su è impresa titanica e c'è chi vorrebbe mandarla a fondo e farla finita una volta per tutte. Il vostro paesello, Onna, rinasce piano piano. Ancora pochi cantieri , il cemento confonde i lineamenti, il posto è lo stesso ma sembra di essere altrove. Dove c'erano le macerie ora c'è il vuoto. L'erba e gli arbusti hanno cancellato ogni segno del prima. Quello che ci sarà dopo cominciamo a immaginarlo ma sarà una storia nuova in cui anche la memoria rischia di svanire nel buco nero di quella notte senza aurora. La chiesa riaperta l'anno scorso è al centro del paradosso di questa strana ricostruzione. Da un lato un enorme cantiere, dall'altro spezzoni del tempo che si è fermato otto anni fa.

L'Aquila è ora in mezzo a un fiume di miliardi di euro. Tutti ci sguazzano dentro , qualcuno annaspa, altri stanno a galla, molti si godono l'aria fresca e il tepore della primavera. Dietro c'è l'argine della tragedia, davanti l'eden che sarà per pochi: per i soliti coltivatori di rendite, per i palazzinari alla “dai che paga pantalone”, per i politici che vedono il sol dell'avvenire “vendendo” favori e prebende, agli egoisti tanto al chilo, a quelli del “chi ha avuto ha avuto”. Non sta rinascendo una città ma un minestrone fatto di interessi più o meno inconfessabili. Dentro c'è di tutto, gli ingredienti _ pagati a caro prezzo _ vengono cucinati a caso, i più lesti e i più furbi si riempiranno lo stomaco, altri avranno gli avanzi. Vi confesso che se voi foste ancora con me sarei preoccupato per il vostro futuro. Qui c'è l'atavica pretesa che assistenzialismo e sviluppo siano la stessa cosa. Soldi pubblici vengono sperperati per dubbie operazioni di tipo politico-industriale, la sindrome dello scippo non viene bilanciata dall'orgoglio di essere capoluogo di una delle regioni più belle d'Europa. Cari ragazzi non voglio tediarvi con troppe banalità. Voi siete in una dimensione nella quale le miserie umane non hanno cittadinanza. Papà e mamma sono costretti a vivere senza aspettare lo squillo del cellulare con il vostro nome sul display. Senza i messaggi su whats app: “arriviamo”, “che c'è a pranzo”,“stasera andiamo a prendere la pizza”, “Siamo in giro con gli amici non aspettateci”.

Quanto ci mancano persino le litigate, i rimproveri, il vedervi crescere e diventare adulti sapendo che mamma e papà sono sempre lì come un porto sicuro pronti a consolarvi per le delusioni della vita o a offrirvi una spalla su cui versare una lacrimuccia. E così le serate finiscono nel silenzio, le notti nel tormento degli incubi, le mattine in una luce che acceca e fa smarrire la strada.

Un altro anno è passato. Vuoto e doloroso. Eppure ci siete. Ci date la forza di resistere. Siete voi la luce vera. Contro chi dimentica, sbeffeggia e vorrebbe toglierci anche la dignità. Grazie ragazzi.

Al prossimo anno. Brinderemo di nuovo col dolore che ubriaca, con la rabbia che ruggisce, con il pianto che fa germogliare la speranza.

Per sempre.

Mamma e papà.

Onna, aprile 2017