Quello che ferisce nella sentenza Grandi Rischi

Era mattino. Presto. Un pallido sole riscaldava l’aria. Sono uscito da casa e ho percorso i pochi metri che mi separano dalla strada, via Oppieti, a Onna. Ho sentito quei leggeri rumori che ti ricordano che intorno c’è la vita che si sta svegliando. Ed allora ecco Giosafatte, il vicino cordiale e sorridente; poco più in là Ninina che a 80 anni va ancora splendidamente in bicicletta; scorgo una figura appena disegnata dalla luce del sole che si inabissa dietro l’angolo del pagliaio, all’incrocio. Mi incammino e guardo il mio paesello accovacciato nella valle , placido come un grosso cane che ha ricevuto un’abbondante razione. Tiro fuori il cellulare, guardo l’ora. Sono quasi le 8. Vicino c’è la data: 5 aprile 2009. E’ a quel punto che sobbalzo e mi ritrovo sudato sul letto. Non sono in via Oppieti ma in un altro posto , là dove mi ha portato il destino. Accendo la radio. Parlano di una sentenza: “Tutti assolti”. Vado davanti al computer. Sul sito del Centro vedo e sento il momento in cui una donna in toga legge quello che gli avvocati chiamano il dispositivo. C’è una cosa che mi ferisce. Non le assoluzioni, ma lo snocciolìo dei nomi delle vittime senza un briciolo di emozione, come fossero pedine del gioco della dama. E’ la procedura si dirà. Certo, ma la procedura non prevede che di fronte alla tragedia di una città la prima preoccupazione sia quella di chiedere _ con preventiva imbarazzante  freddezza _ il silenzio nell’aula. Già, il silenzio. Come quella notte pochi minuti dopo la scossa. I morti non gridano e i vivi non hanno più nulla da dire. Poi la voce sgorga di nuovo, l’urlo scuote la notte, la polvere intasa i bronchi, la terra trema, trema, trema. Ti guardi intorno e vedi ammassi di pietre , ferro, cemento, legno. Se sollevi lo sguardo il cielo ti sembra il solito cielo. La luna quella notte oscurava le stelle meno luminose. Poi se ne videro altre 309 che salivano in alto lasciando i loro letti disfatti e la terra bagnata di lacrime. Quella sentenza ferisce perché i morti, per lo Stato, sono una necessità. Vanno messi nel conto e a chi tocca tocca. Perciò se fossi stato in aula avrei forse avuto l’istinto di strappare il foglio dalle mani della donna in toga. Lei non aveva nessun diritto di pronunciare i nomi dei miei figli. Non sa nulla del loro sorriso, della loro voglia di vivere, dei loro sogni. Eppure è successo e poi magari se ne è tornata a casa a dormire sonni tranquilli dopo aver fatto bene, molto bene, il suo dovere di giudice.

La sentenza bis Grandi Rischi stende un silenzio cupo su quest’angolo di mondo. Le poche grida di lunedì sera si sono spente nell’indifferenza di una città che pensa a farsi gli affarucci sul dolore altrui. E c’è chi se ne sta facendo molti. Quei cinque minuti durante i quali è stato letto il “dispositivo” hanno segnato lo spartiacque definitivo. L’Aquila è affondata ma l’orchestra dei furbi e dei profittatori continua a suonare. Fino alla prossima tragedia, fino alla prossima sentenza.