Finto lavoro per lasciare i domiciliari, condannati 

Con la moglie inventa un impiego in un negozio di frutta per andare a spasso L’uomo stava scontando una pena per associazione a delinquere e furto

CHIETI. Insieme alla moglie, si è inventato un impiego in un negozio di frutta e verdura per lasciare gli arresti domiciliari. Ma i carabinieri hanno scoperto tutto: quel posto di lavoro a tempo indeterminato era totalmente falso. Così Marian Hristu, romeno di 29 anni, e Deborah Spinelli, pescarese di 22 anni, sono stati condannati – rispettivamente – a 2 anni e a un anno e 6 mesi di reclusione (pena sospesa per la donna). La sentenza del giudice Andrea Di Berardino è arrivata lunedì pomeriggio.
Per riepilogare la vicenda, bisogna tornare indietro al 2016. La premessa è che, all’epoca, Hristu si trova ai domiciliari per i reati di associazione per delinquere e furto aggravato e che, per quei fatti, ha patteggiato la pena di 2 anni e 2 mesi di reclusione. Il 5 ottobre il difensore di Hristu presenta un’istanza in tribunale per chiedere che il suo cliente venga autorizzato per svolgere l’attività lavorativa da lui «trovata» come «addetto al magazzino di un negozio di frutta» a Pescara, in via Tiburtina Valeria, «allegando copia di un contratto a tempo indeterminato stipulato con Deborah Spinelli il 30 settembre del 2016», si legge sulle carte dell’inchiesta.
Ma i carabinieri del nucleo operativo e radiomobile di Pescara, spiega il giudice per le indagini preliminari Luca De Ninis, riferiscono che «sul posto non è presente alcun negozio di frutta, bensì l’abitazione dell’uomo e della sua convivente Deborah Spinelli, la quale ha semplicemente attivato la partita Iva di una ditta individuale per la vendita di frutta e verdura, con sede presso il medesimo domicilio; interpellata, la donna ha raccontato di aver solo iniziato la vendita ambulante di frutta e verdura, attività per la quale necessiterebbe dell’aiuto del proprio convivente agli arresti domiciliari». Secondo il gip, dunque, dagli accertamenti emerge che la richiesta presentata dall’arrestato è basata «su un presupposto inesistente – la preesistenza di un magazzino, con funzione di supporto logistico per un negozio – falsamente addotto per superare l’evidente incompatibilità tra l’attività lavorativa ambulante (del cui effettivo svolgimento, da parte della convivente, non è stata nemmeno fornita prova) e le esigenze cautelari per cui è stata applicata una misura, all’elusione della cui funzione l’istanza sembra essere finalizzata in via esclusiva». Dopo le indagini, coordinate dal sostituto procuratore Giuseppe Falasca, e il rinvio a giudizio disposto dal gup Isabella Maria Allieri, marito e moglie si sono ritrovati sotto processo con l’accusa di concorso in «false dichiarazioni o attestazioni in atti destinati all’autorità giudiziaria».
Gli imputati, difesi in aula dagli avvocati Tullio Zampacorta e Mariagrazia Sciubba, sono pronti a presentare ricorso in appello.
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