Il terreno del Megalò 3 finisce sotto processo

Il pm: danno ambientale ed edilizio, a giudizio l’imprenditore Colanzi Maxi tegola sul progetto. No del gip anche al dissequestro dell’area

CHIETI. Sull’area dove dovrebbe nascere il Megalò 3 grava un processo penale. Tra i pareri discordanti e ondivaghi del Genio civile e dell’Autorità di Bacino (il primo contrario all’insediamento, il secondo favorevole), e i procedimenti pendenti davanti al Tar e al Tribunale delle acque, si pone, grossa come un macigno, l’inchiesta della procura della repubblica di Chieti che ha rinviato a giudizio l’ex proprietario dei 35mila metri quadrati di terra, a ridosso del fiume Pescara.

Filippo Colanzi, 49 anni, di Chieti, è imputato di violazioni edilizie e reati ambientali.

I reati contestati all’ex proprietario dell’area, che oggi appartiene alla società Akka di Carmen Pinti, per ora e almeno fino a che la causa penale non si definisca, blocca le velleità di costruzione della società Akka, estranea a questa inchiesta, ma della quale sta subendo gli effetti.

A causa di questo processo, (la prima udienza verrà celebrata a fine aprile), l’area infatti è stata in parte sequestrata con provvedimento del Giudice per le indagini preliminari del tribunale di Chieti che ha accolto la richiesta del pubblico ministero Giuseppe Falasca firmatario del rinvio a giudizio. Il sequestro è stato confermato dallo stesso giudice per ben 3 volte, tante quante le richieste di dissequestro della società Akka che mostra premura di realizzare il Megalò 3. Nelle istanze, la società ha motivato la fretta a costruire perché vincolata a contratti con multinazionali del fast food (leggesi Mc Donald’s) intenzionate a insediarsi all’interno della nuova struttura.

Ma per capire meglio la vicenda torniamo alle accuse contestate al vecchio proprietario, assistito dagli avvocati Giuliano Milia e Marco Femminella.

Colanzi, nella sua qualità di legale rappresentante della Emoter srl, società titolare di un impianto di trattamento rifiuti da costruzione e demolizione, realizzava all’interno dell’area, sottoposta a vincolo paesaggistico, senza permesso di costruire, un terrapieno di rilevanti dimensioni, sia per ampiezza che per altezza, (mediamente pari a circa 3 metri), e utilizzata dalla società per la movimentazione dei mezzi. Inoltre realizzava il terrapieno senza la necessaria autorizzazione paesaggistica. Un permesso, dice la procura, necessario, in quanto il terreno si trova a una distanza inferiore a 150 metri dal corso del fiume Pescara e inferiore a 50 metri dal suo argine. In più, sempre secondo l’imputazione, la Emoter di Colanzi abbandonava o comunque depositava in maniera incontrollata all’esterno della area una considerevole quantità di rifiuti di diverso genere: laterizi, blocchi di cemento, resti di sottofondo stradale, materiale plastico, utilizzati per il ritombamento del vecchio piano di cava.

Infatti in quella zona negli anni 80 esisteva una cava autorizzata. Vuoto che la società di movimento terra aveva coperto, secondo la procura senza le prescritte autorizzazioni e con materiale inquinante.

Ma la difesa non ci sta. «In quella zona esisteva una cava autorizzata», dice l’avvocato Marco Femminella, «e la Emoter di Colanzi non ha fatto altro che ripristinare lo stato dei luoghi con materiale vegetale, lavoro per il quale era autorizzato. Prima che la cava fosse sfruttata il terreno era a più 35 centimetri sul livello del mare ed è oggi alla medesima altezza».

«Non è vero poi», conclude il legale «che il materiale usato sia inquinato. Non c’è niente di illecito. Sono stati trovati solo qualche copertone e qualche pezzo di plastica. Niente di più».

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