Intasca i soldi della visita, condannato 

Pena di due anni per un chirurgo dell’ospedale: contestato il reato di peculato per un esame da appena 100 euro

CHIETI. Condannato per essersi «messo in tasca» 100 euro pagati da due pazienti per una visita all’anziana madre malata. Una visita senza «alcuna ricevuta» e di cui non c’è traccia nei registri della Asl di Chieti. È accusato di peculato un ex medico dell’ospedale Santissima Annunziata e, dopo la sentenza della Corte di Cassazione, la pena è definitiva: sul chirurgo, 61 anni, originario dell’Aquila e ora in servizio fuori dall’Abruzzo, pende una condanna a due anni di reclusione. Ma il caso, nonostante il terzo grado di giudizio, non è ancora chiuso e la difesa del dottore, con l’avvocato Vittorio Iovine, denuncia «un clamoroso errore giudiziario» ed è pronta a fare ricorso davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Il caso risale al 2011 quando due sorelle si rivolgono al medico, incontrato per caso nel corridoio dell’ospedale, per una consulenza sulla madre ricoverata in chirurgia e affetta da un tumore. Una visita in regime di intramoenia, cioè con circa la metà del corrispettivo spettante al medico e il resto da versare nelle casse della Asl. Il presunto reato di peculato spunta tra le righe di un esposto presentato dopo la morte della paziente: le figlie depositano una denuncia per accertare eventuali colpe mediche durante il ricovero della loro madre e, sull’esposto, ricordano un dettaglio e cioè quello di aver pagato «100 euro» per quella visita ma senza ricevere attestazioni. L’indagine sulla morte sospetta finisce senza scoprire responsabilità ma, da quel fascicolo, si apre un altro procedimento che riguarda proprio la visita e l’ipotesi di peculato. Inizialmente, al termine dei primi accertamenti, la procura chiede l’archiviazione del medico non ravvisando reati. Ma il tribunale risponde chiedendo l’imputazione coatta. In primo grado, a Chieti, il medico viene condannato a due anni. Pena confermata anche in appello nonostante la Corte aquilana, nel corso del giudizio, richieda nuovi documenti per approfondire e la Asl li trasmetta via fax e con delle cancellature: secondo i giudici di secondo grado, anche quei documenti, oltre al racconto delle sorelle giudicato «attendibile», provano che il medico si sarebbe «appropriato» dei soldi senza versarli alla Asl di proposito e questo, per l’accusa, non sarebbe «una mera dimenticanza». Ma un medico, con uno stipendio di oltre tremila euro, può rischiare di finire nei guai per appena 50 euro? Un’ovvietà per la difesa che, nei ricorsi, produce documenti in cui il medico assicura di aver erogato rimborsi alla Asl per 407 euro nello stesso periodo del 2011. Documenti troppo generici per l’accusa: «Nessun versamento riguarda né espressamente né implicitamente l’importo percepito per la visita incriminata». Ma quei soldi dove sono finiti? Nel processo, la dipendente addetta racconta «di non essere stata presente a lavoro il giorno dell’accaduto e che, di solito, quando il medico riceveva i clienti in sua assenza, questi dovesse riporre il denaro delle visite all’interno di un ricettario affinché fosse poi ella stessa a consegnarlo a chi di dovere». Su questo, la difesa parla di «disorganizzazione della struttura» e dice che «chiunque avrebbe potuto» prendere quei soldi. Davanti ai giudici, altri dipendenti-testimoni rivelano la «prassi» di prendere i soldi e lasciarli in ufficio. Una «prassi abbandonata dopo il verificarsi di alcune irregolarità» tanto che la dirigenza della struttura ordina «che le prenotazioni e i pagamenti fossero effettuati a mezzo del Cup».
«Il mio assistito», annuncia l’avvocato Vittorio Iovine, «è vittima di un clamoroso errore giudiziario concretatosi tra l’altro in una grave lesione del diritto di difesa, per la quale stiamo valutando seriamente il ricorso alla Corte europea, essendo stata del tutto stravolta la portata scagionante della prova documentale acquisita».