Flavio Sciolè: io, profeta dell’antiarte amo la poesia di Pascoli e Leopardi

Da Atri alla conquista del mondo, l’autore di cinema, teatro e performance si racconta «Provo sgomento di fronte al quotidiano. Sono quello che sono: ho dato le dimissioni dal ruolo»

Costretto a sanguinare per esistere, oppure il contrario? Valide entrambe per un artista visionario, dropout, tenero come Flavio Sciolè. Venticinque anni di coerente "anti" carriera. Nell'antiarte pura, antiteatro, anticinema, antipoesia. Un antipersonaggio. In bilico tra abisso e redenzione. Perfettamente a suo agio nell'underground così come nell'amoroso nido famigliare. Artista apolide, maledetto, in perenne cortocircuito, Sciolè è una sorta di revenant nel sistema ufficiale dell'arte eppure una certezza nel panorama internazionale della videoarte sperimentale, anticonvenzionale e indipendente. Centinaia i suoi lavori video proiettati-premiati-segnalati in Italia e nel mondo. Quarantenne e già storicizzato, dichiara di «vivere in un mondo distopico» e di provare «sgomento di fronte al quotidiano». Di recente, l’Accademia di belle arti dell’Aquila ha dedicato una full immersion di 8 ore al suo teatro, riconoscendolo «erede e superamento» di due mostri sacri del Novecento, Artaud e Carmelo Bene. Pescara, sua «patria artistica insieme a Roma», lo ha celebrato con una retrospettiva di cento video inediti e storici per circa dieci ore di proiezione, "Ceremony for Sciolè". La rivista Cinecritica lo ha messo in primo piano con un saggio-intervista. L’Istituto di ricerche estetiche dell’Università di Guadalajara, in Messico, ne ha ora pubblicato un «monologo interiore» scritto per il suo Teatro Ateo quasi vent'anni fa, "Il re è pazzo". Un esploratore degli abissi della (sua) anima, Sciolè, alla ricerca di un'umanità perduta. Lo racconta in questa anti-intervista al Centro.
Sciolè, perché antiartista?
L’antiarte è stata la casa ideale per accogliere il mio fare artistico. Agisco da sempre con i codici dell’underground, dello sperimentale e della ricerca. Non è stato quindi un atto casuale ma una precisa scelta di campo. Il mio teatro, il mio cinema e le mie performance avevano bisogno di una zona in cui potessero vivere tranquillamente e lontane dalla società dello spettacolo. Ho dato le dimissioni dall’artista, dal ruolo, per essere unicamente quello che sono.
In "Ceremony for Sciolè" curata da Silvia Moretta all'Aurum, la sua installazione site specific "Dell’arte morta o della morte dell’arte" corredava l’anticelebrazione senza lasciare troppe speranze, "Pagherete l'arte e la pagherete tutta" per citare uno slogan anni '70. L'arte è veramente morta?
Sì, è morta. L'installazione è il secondo capitolo di un ciclo che riflette sulla condizione dell’artista giovane. Troppo spesso a chi compie i primi passi nel mondo dell’arte, viene sottratta la meraviglia, lo stupore. Il mio vuol essere un monito, spero che le nuove generazioni possano creare libere e senza costrizioni.
Tipica sua modalità di espressione è la recitazione inceppata. Com'è nata?
Nella mia ricerca ho incontrato l’inceppatura, lo sbaglio, l’errore. Che mi ha illuminato sulla condizione umana, sulla fragilità del nostro vivere. Volevo un’estetica che fosse etica. La mia indagine è andata così a sviscerare i margini per portarli in evidenza, gli angoli bui per metterli in luce, l’invisibile per renderlo visibile. Penso che ognuno abbia almeno un lato debole, oscuro. Oggi la fragilità è considerata un disvalore, credo invece sia parte della condizione umana, un qualcosa da accettare e da amare. Siamo tutti a termine e imperfetti. Io ho sempre cercato chi mi somigliasse, nella consapevolezza del mio agire. Si cerca sempre se stessi.
E' stato arduo affermare la sua voce, il suo antipensiero?
Non è stato difficile, non ho mai ricercato un risultato. Mi ha sempre interessato portar fuori il mio sentimento nel miglior modo possibile, senza filtri nè compromessi. Il pubblico c’è ma è una conseguenza dell'atto creativo, non il contrario.
"Il re è pazzo", uno dei primi testi di Teatro Ateo da lei allestiti, tratta della spersonalizzazione del soggetto, l'immobilismo (anche fisico) in scena.
Ho scritto il testo nel 1999, in pochissimo tempo. L’elaborazione dello spettacolo e la conseguente disarticolazione del testo hanno avuto una genesi più lunga. Oltre all’inceppatura vocale, volevo che il personaggio si muovesse solo con dei micromovimenti. Nel creare mi muovo su diversi livelli: parola, corpo, scrittura, tutto si mescola ed interseca. Quando il flusso finisce e la visione termina, c’è il parto.
In tutto il mondo i suoi video e live trovano un seguito impressionante. C'è differenza con il riscontro nazionale?
Trovo che il pubblico all'estero sia più recettivo e affamato di arte, la fruizione dell’arte è considerata necessaria e improrogabile. In Italia si cerca di ridurla a intrattenimento. Credo che l’arte non sia consolazione ma vita, carne pulsante. Nel cinema e nel teatro c’è sempre meno possibilità di accesso per chi porta nuovi moduli cinematografici o drammaturgia contemporanea. L’Italia è la culla dell’arte ma credo che questo sia il momento più buio della sua storia, ha come dimenticato il suo Dna. L’ignoranza domina anche la cultura e tutto deve essere edulcorato, addomesticato. Nel regno dei mediocri, i mediocri eccellono. Fare scelte di qualità è un martirio. Mi augurerei una resurrezione, uno spostamento dello sguardo: dai monitor al cielo, dai cellulari a chi ci sta intorno, scendere in strada e tornare a parlarsi.
Nel 2016 Sigismundus, editrice marchigiana, ha pubblicato "Nel decadere infranto ed altre poesie". La raccolta segue a "Natura e Nulla" (C.D. Editrice, 1993). Ora l'attenzione su Leopardi e Shakespeare. Come lavora sulla poesia?
In “Nel decadere infranto” la mia poesia si è spostata verso il decadere quotidiano dell'uomo, ho messo a nudo il quotidiano scrollandomi di dosso il superfluo, il non veritiero. Mi interessava restituire un approccio alla vita fatto di passi lenti e di consapevolezza. Attualmente continuo a cercare una nuova scrittura vocale di Pascoli e Leopardi. E sto rielaborando-riscrivendo Shakespeare per applicarlo al mio teatro. Shakespeare, come Leopardi, è immenso. I suoi personaggi sono assoluti, universali. Mi piacerebbe, in futuro, girare un film di genere.
Com’era Flavio da bambino?
L'infanzia è stata un momento splendido della mia vita. Giocavo con i soldatini e amavo i pirati e gli indiani. Scrivevo anche delle piccole poesie e leggevo tanti fumetti, erano il mio pane quotidiano. La lettura e la scrittura sono rimaste e così anche lo sguardo sul mondo.
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