L'INTERVISTA

Maccio Capatonda: con la comicità voglio dissacrare i luoghi comuni 

L’attore e regista abruzzese che ha creato un mondo surreale passando dalla televisone al cinema: «Ho iniziato facendo film nei quali a Chieti succedevano cose che non sarebbero mai accadute»

Muove i primi passi con improbabili horror pionieristici girati a Chieti e, dopo qualche anno a lavorare con la pubblicità seria, torna quasi per caso alla vocazione dell'attore e del regista: finti reality e trailer per la Gialappa's, serie tv “Mario” e film consacrano Maccio Capatonda, che oggi è probabilmente il comico abruzzese più conosciuto. All'anagrafe è Marcello Macchia, nome vero che quasi rivaleggia con Maccio, tanto che viene da chiedersi con quale si sente più a suo agio: «Con Marcello, perché Maccio fondamentalmente è il nome d'arte, quello con cui mi chiama chi non mi conosce. In realtà mi piacciono entrambi, ma magari tra un po' ne adotto un altro… forse Mimmo, il personaggio che interpreto nella nuova serie».
Di cosa si tratta?
Si intitola “Degeneri” e uscirà per Sky verso giugno: è una serie “ambientata” in diversi generi cinematografici, in ogni puntata c'è un genere.
Tornando a Maccio: com'è nato questo nomignolo?
Istintivamente, mentre doppiavo “La febbra”, il primo trailer per “Mai dire” nel 2004. Stavo presentando gli attori con nomi detti a caso, perché se sono più spontanei fanno più ridere. Mi venne fuori Maccio Capatonda, sul quale con un analisi a posteriori si potrebbero dire mille cose: ad esempio che Maccio è dispregiativo di Marcello passando per Marcellaccio, e Capatonda per ovvi motivi personali… In realtà è stato casuale.
Di solito nei vostri lavori c'è più programmazione o più improvvisazione?
Ci sono cose per le quali prepariamo tutto prima: sull'ultima serie ad esempio abbiamo lavorato 5-6 mesi; per un trailer ci vogliono 4-5 giorni. Alcune gag funzionano appena scritte e non c'è spazio per improvvisare.
È il caso dei fratelli Peluria, che forse sono anche il vostro personaggio più abruzzese?
Sì: tutte e due le cose. Li possiamo definire dei bei “cafoni doc”: ho voluto metterci tutta la mia abruzzesità, esagerando e tirando fuori la parte più verace dei paesi.
Il fratello di questo cafone abruzzese è un molisano, Luigi Luciano in arte Herbert Ballerina: Abruzzo e Molise sono due regioni più simili tra loro che rispetto ad altre?
Sono due territori vicinissimi non solo geograficamente, che si somigliano più di quanto l'Abruzzo non somigli alle Marche o il Molise alla Puglia: si vede che una volta erano uniti. Io lo sento anche sulla mia pelle perché mia madre è molisana, e ho passato tanto tempo a Montenero. Ci sono tanti punti in comune: non saprei neanche dire quali sono, ma passando da una regione all'altra si ha l'impressione di restare nella stessa terra.
Torna spesso in Abruzzo?
Non spessissimo per gli impegni a Milano: scendo giù d'estate, a Natale, per le feste principali. Quando vengo stacco la spina totalmente e mi godo cose che, quando ci vivevo, non ritenevo importanti o non consideravo: quando a 18 anni volevo solo andarmene. Mi piace tantissimo la montagna, forse un po' meno il mare, ma frequento la costa tra Francavilla e Pescara, oltre ovviamente a Chieti.
Come ha iniziato a lavorare con le immagini?
Era una specie di evasione. La tv e i media mostravano una realtà completamente diversa da quella che vivevamo, e appunto facevo film nei quali a Chieti succedevano cose che non sarebbero mai accadute. Il primo si intitolava “Jason a Chieti”, un horror nostrano girato con gli amici e poi montavo in vhs con l'aiuto di un vicino.
Il passaggio da “Jason” a “Maccio” com'è avvenuto?
In realtà dopo il liceo scientifico non ero più tanto convinto di fare il regista o l'attore, e ho scelto una laurea breve in Tecnica pubblicitaria a Perugia. Nell'ultimo anno faccio uno stage in una casa di produzione milanese che fa spot, dove ho assaporo per 4 mesi il set e resto a lavorare 2 anni con vari ruoli, come assistente regia e altri compiti nella produzione, ma sempre roba da gavetta. Nel backstage utilizzo le prime telecamere digitali, quando c'è il grande passo dal montaggio analogico al digitale: mi portavo queste telecamere a casa, dove per hobby faccio cose mie con voci e musiche, in grande libertà. Poi le mostro ai colleghi e piacciono, e quando le vede un produttore mi propone un personaggio per una trasmissione di musica elettronica un po' comica: lì nasce Jim Massew, la parodia di un social trainer. Lo vede la Gialappa's, che nel 2004 mi chiede delle proposte per “Mai dire”, e così inizio con i trailer, i finti reality…
Anche in una comicità molto immediata e diretta si può trovare una morale o una sorta di critica a certi aspetti della società?
In quello che faccio c'è comunque sempre una volontà di dissacrare e di decomporre qualcosa di costruito: il linguaggio, il modo di fare tv e informazione. C'è la voglia di scardinare qualcosa a partire dalla lingua, con strafalcioni e nuove parole, ed esprimere opinioni che mettono in luce contraddizioni della nostra epoca. Spesso anche in maniera poco conscia, che è il modo migliore per farlo: preferisco affidarmi all'istinto e all'intuito.
“Italiano medio”, una parodia di tanti luoghi comuni, è il primo lungometraggio, che nasce paradossalmente da un trailer. Come avviene questo passaggio?
Vari produttori mi avevano contattato per un film. Dovendo scegliere una trama tra i vari nostri trailer abbiamo pensato che quello fosse il più adatto, perché conteneva tanti spunti.
Sul set gli amici del cuore di Maccio sono il già citato Herbert ed Enrico Venti, noto anche come Ivo Avido: come nascono queste collaborazioni?
Con Enrico, anche lui di Chieti, ci conosciamo da tantissimo. Dopo le prime produzioni e i primi video abbiamo anche dato vita alla nostra casa, la Shortcut Production, dove ci commissionano pure tante cose molto diverse da quelle che ci rendono famosi.
Invece con Luigi-Herbert siete quasi coppia fissa.
Lui era amico di Enrico e veniva al mare a Francavilla. Quando già eravamo con la Gialappa's e lui usciva dal Dams, ci contatta e sale a Milano perché vuole fare qualcosa nel settore. La prima volta viene ingaggiato come cameraman: un disastro, e lì per lì dico “questo me lo cacciate”. Però rimane. Stando sempre sul set alla fine una parte ci esce, così capiamo che ci sa fare che il suo posto è davanti alla macchina come attore.
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