Quelle vite brevi di tennisti eminenti 

In un volume di Matteo Codignola le storie di passione, di momenti diventati esemplari dello sport amato dalla letteratura

Facendo il verso alle “Vite brevi di uomini eminenti” di John Aubrey, pubblicato quaranta anni fa proprio dalla casa editrice, la Adelphi, per cui «fa libri», è editor e traduttore (per esempio di Mordecai Richler), nel libro “Vite brevi di tennisti eminenti” (Adelphi, 290 pagine, 22 euro) Matteo Codignola ci parla di tennisti celebri e meno, confessando come già altri autori che «la scrittura ha una valenza terapeutica e raccontare un vizio una volta per tutte sia il modo migliore per lasciarselo alle spalle e girare pagina».
Il vizio di Codignola è naturalmente il tennis, sport che pratica da quando aveva sette anni e naturalmente, nonostante quella convinzione «ingenua e pericolosa» per chi fa il suo mestiere, è convinto dell'impossibilità di guarire, come ha capito durante la «semi di Wimbledon 2018 tra Isner e Anderson» che non ha trovato insopportabile e noiosa, ma si è «goduto quelle sette ore di servizio e quasi nient'altro» senza soffrire, anzi. In più lui ha l'ossessione per un gioco che ritiene irraccontabile (pur avendo fatto lui pubblicare in italiano «Levels of games» di McPhee) , perché se ne descrivono e ricostruiscono i particolari esteriori, cosa invece impossibile per «la meravigliosa fluidità che rende questa danza con una palla diversa da qualsiasi altro sport». Questo sino al momento in cui, vero o espediente letterario che sia, al mercatino di Cormano un suo amico non avesse trovato una valigia di cuoio che conteneva una busta con un centinaio di foto scattate nel circuito amatoriale del secondo dopoguerra, che fino al 1968 corrispondeva al circuito Atp come lo conosciamo oggi. Ne sono uscite venti storie, alcune delle quali già Codignola conosceva, altre che ha ricostruito partendo da un dettaglio e che ora formano questo volume.
Storie di vite, di passione, di momenti diventati esemplari, quindi capaci di raccontare e rivelare qualcosa anche ai non appassionati, mentre questi ultimi non si le lasceranno scappare. Del resto il tennis ha sempre avuto una sua storia letteraria che “Open” di Agassi ha rilanciato alla grande, e solo restando da noi tutti ricordano “Il giardino dei Finzi Contini” di Giorgio Bassani, tennista lui stesso tutta la vita, come i romanzi o i libri storici di un esperto quale Gianni Clerici, ultimo dei quali è un grande volume, “Il tennis nell'arte” (Mondadori, 338 pagine 36 euro) che parte dalle donne in bikini che giocano a palla nei mosaici romani di Piazza Armerina e arriva a oggi, passando per Tiepolo, Carrà, Campigli e Hopper.
La galleria di Codignola va invece dall'ebreo barone Gottfried von Cramm, spirito libero capace di rispondere a tono anche Goering, giocatore elegante dai «larghi gesti europei» che non abbandonò mai e forse gli costarono l'essere «il più forte giocatore a non aver mai vinto Wimbledon», per arrivare a Dick Savitt che introdusse «nel mondo fin lì sfrontato wasp del tennis.... il nervosismo ebraico» su cui teatro, cinema e letteratura avrebbero vissuto per decenni «fino ai limiti della decenza». Tutti tipi a loro modo eccentrici, esemplari nel loro essere eccezionali e dotati di una propria umanità questi di cui ci parla il libro, passando per Torben Urlich, musicista, suonatore di clarinetto che cercava, in stadi o palazzetti che fossero, di cogliere il suono perfetto della palla sulle corde, tanto da rifiutare per queste ragioni sonore le nuove racchette di metallo, o “Teach” Tennant che cercava di trasformare in «statue di tennis» due giocatrici come Carole Lombard e Joan Crawford, sino a Whitney Reed, giocatore maledetto dalla vita sregolata, il quale poteva arrivare a un torneo col ritardo di una giornata, che aveva perso appresso a una hostess incontrata in aereo.
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