libri

“Una libertà felice”, vita e opere di Marco Pannella

Esce da Mondadori l’attesa autobiografia del leader radicale scritta con Matteo Angioli che verrà presentata oggi alla Biblioteca Delfico di Teramo

Oggi a Teramo, sarà presentato in anteprima nazionale il libro autobiografico “Una libertà felice”, scritto da Marco Pannella con Matteo Angioli durante la malattia che lo ha portato alla morte. Il libro sarà presentato, alle 18, alla Biblioteca Delfico. Dialogherà con il pubblico il coautore Matteo Angioli. Interverranno Maria Antonietta Farina Coscioni, presidente dell'Istituto Luca Coscioni, MaurizioTurco, presidente della Lista Marco Pannella, Laura Harth, Vincenzo Di Nanna, segretario di Agl Abruzzi, e Alessio Falconio, direttore di Radio Radicale. Di seguito pubblichiamo l’estratto di un capitolo del libro.

leggi anche: «Non ha mai smesso di lottare e di amare l’Abruzzo» PESCARA. Matteo Angioli, come nasce questo libro? «E’ stata una proposta di Mondadori. Anche Clemente Mimun da un po’ gli chiedeva di scrivere. Così Marco ha accettato». Pannella non ha scritto molto...

Mia madre è stata il tributo che, in qualche modo, mio padre accettò di pagare contro le tradizioni locali. Tradizioni ferree, ovviamente, tradizioni piuttosto autarchiche, in cui lo straniero era una presenza rara e perciò guardata con molta circospezione, in certi casi anche con qualche diffidenza. Credo che fossero comportamenti tipici di molta provincia italiana, in quel periodo. Quando mio padre si rifece vivo a Teramo, nel 1927, dopo la lunga assenza per gli studi, aveva accanto una moglie pescata in un luogo lontano, addirittura un luogo straniero. E c’è poco da fare, questa moglie esotica violava diverse regole. Per cominciare, non parlava una parola d’italiano, e fin qui siamo ancora di fronte a una colpa che, con un certo sforzo, si poteva pure perdonare. Ciò che invece passava come un affronto, come una diversità del tutto intollerabile, è che non conoscesse affatto l’abruzzese. Inoltre, per rendere tutto definitivamente più grave, aveva la patente di guida, portava i capelli corti e indossava gonne altrettanto corte. Non so dire quanto corte, di sicuro troppo per il buon gusto teramano dell’epoca. Lì le donne normali indossavano abiti neri pesanti, abiti che in ogni stagione arrivavano alle caviglie. Inoltre portavano capelli lunghissimi, sempre raccolti nel cosiddetto tuppo,

quello che per i francesi è il toupet. Insomma, se non c’erano proprio tutti gli indizi per proclamarla sciantosa o puttana, ci andavamo comunque molto molto vicini. Gli elementi per una condanna sommaria c’erano. E infatti molti emisero la loro sentenza. E qui, allora, diventa decisivo l’intervento di zio Giacinto, non nel ruolo di prete, ma in quello di amministratore del patrimonio terriero dei Pannella. Quando capisce che la diversità di suo nipote e della sua strana moglie può creare scintille col resto della comunità, decide di accrescere l’autorevolezza di mio padre, e gli concede sull’istante quella parte di terre che gli sarebbe spettata solo in seguito. Il giovane ingegnere appena rientrato dalla Francia diventa così un uomo rispettato, titolare di una fetta considerevole di beni propri. Sarà anche per questo, per la traccia profonda lasciata dalla scelta abile di don Giacinto, che ho sempre conservato rispetto per il clero. Mai avuto problemi con i preti, sono un laico sereno che non li detesta, e che di detestarli non ha mai avvertito nessun bisogno. Le mie battaglie anticlericali sono state dure, apparentemente provocatorie, volevo spazzare via quella coltre vaticana che impolverava il paese. Ma si trattava di pure e semplici sfide democratiche, mai di livori personali.

(...) Pensate quanto potesse apparire strana mia madre. Una giovane signora che in casa parlava francese con suo marito e con suo figlio. Tra l’altro, aggiungo che ben presto la faccenda della lingua smise di essere solo una questione di piccolo disagio sociale, diventò invece un vero e proprio problema, pure piuttosto serio. La fascistizzazione del paese si faceva col passare degli anni più serrata, le ossessioni del regime e le leggi autarchiche incombevano sempre di più. Mia madre aveva conservato la nazionalità francese, e capirete che anche questo, a un certo punto, non poteva essere visto di buon occhio. In più, ogni parola straniera era ormai trattata come un nemico, figuratevi chi parlava abitualmente un’intera lingua che non fosse l’italiano. Stretto tra la modernità della sua moglie francese e tra tutti i pruriti tradizionalisti del partito, mio padre non dovette vivere giorni troppo sereni. A un certo punto lo ricordo preoccupato, sinceramente preoccupato, sia per la sua signora sia per noi figli. L’aria che si respirava nella sede del Fascio doveva essere diventata inquietante. Ricordo che ogni tanto qualche figura autorevole della città o del partito si presentava da noi e diceva a mia madre che parlare francese non stava bene, che non era affatto un bel comportamento. (...) Del resto, quando scoppia la guerra, la Francia si trova subito pienamente immischiata nel conflitto. In quella fase, l’Italia sembra indecisa, ed è comunque sistemata sul fronte opposto. Ciò vuol dire che i guai in casa mia si moltiplicano. L’ostilità del governo italiano verso la Francia comincia a trapelare, e in quel clima eccitato si avanzano anche le prime rivendicazioni territoriali. Il grido è: “Sono nostre la Savoia, Nizza e la Corsica!”. Non c’è un bel clima, e in casa mia la paura si avverte. Avrò avuto cinque o sei anni al massimo quando fu fissato una specie di divieto di andare da un calzolaio che era lì a Teramo. Bisognava ignorarlo, escluderlo, non si doveva frequentarlo in alcun modo. Il motivo ufficiale era il suo vizio di bere, e di bere tanto, perciò in giro tutti dicevano che era un ubriacone, uno pericoloso e da evitare. Ma la ragione autentica era un’altra. In realtà, quel calzolaio ogni tanto usciva fuori dalla sua bottega e urlava, gridava forte, gridava insulti al fascismo. Per questo, solo per questo, la comunità del luogo decise che era il caso di trattarlo come se avesse la peste. Fatto sta che per i teramani che ci conoscevano, mamma diventò subito “la franzosa”, così la chiamavano in sua assenza.

©RIPRODUZIONE RISERVATA