Bertolaso: abbiamo fatto la nostra parte

Lettera di commiato del capo della Protezione civile: il nostro lavoro resterà nel tempo.

Cari amici, mi sembra ieri quando, il 6 ottobre dello scorso anno, a sei mesi dal terremoto, ho scritto a tutti voi per raccontare il mio modo di sentire quella ricorrenza e spiegare la ragioni dell’impegno della Protezione Civile nazionale, e mio personale, a restare all’Aquila fino a quando fosse terminata la fase concitata della costruzione delle case antisismiche da consegnare alle famiglie rimaste senza tetto a seguito del sisma.
Salvo le ultime consegne, gli ultimi appartamenti del progetto Case, gli ultimi Map, due Musp, questo impegno lo abbiamo onorato, dando sistemazione decente a tutti coloro che hanno perso la casa, costruendo oppure facendo ricorso agli alloggi in affitto e ai contributi per l’autonoma sistemazione che molte famiglie hanno preferito ad altre soluzioni.

Non sono ancora passati dieci mesi dal sisma e in questo periodo, lavorando giorno e notte, abbiamo costruito l’equivalente di una nuova cittadina di 20.000 abitanti. Dei contratti relativi alle ultime consegne rimango direttamente responsabile, mentre ogni altra mia competenza ed incarico da oggi passano al nuovo Commissario Delegato, Gianni Chiodi, Presidente della Regione Abruzzo, che sarà coadiuvato come Vice Commissario dal Sindaco dell’Aquila, Massimo Cialente. Questo significa che, con oggi, lascio L’Aquila, la Caserma di Coppito, quella che è stata casa mia dal 6 aprile scorso. Restituisco al Generale Lisi il suo ufficio, che già il 6 aprile la sua squisita signorilità mi aveva messo a disposizione, torno ad avere base nella sede romana del Dipartimento.

Con me tornano a Roma i miei diretti collaboratori e le donne e gli uomini che hanno passato gli ultimi dieci mesi con me guardando il mondo da Coppito, guardando i giorni e tante ore della notte dalle strette finestre della Dicomac, che smobilita per far posto alla nuova struttura commissariale che ne rileva i compiti e le funzioni. Lasciano le loro funzioni i miei vice, Franco Gabrielli, Chicco De Bernardinis, Sergio Basti e Luciano Marchetti, che ringrazio insieme ai Dirigenti del Dipartimento non solo per ciò che hanno fatto ma per la dedizione, la passione, la condivisione che ci hanno fatto essere un’unica squadra.

Mi dico e mi ripeto che si tratta di un semplice passaggio di consegne, di una normale staffetta, che nulla di sostanziale sta cambiando - lo Stato continua ad essere presente, il processo di ritorno alla normalità non solo non si interrompe, ma affronta nuovi capitoli e nuovi impegni, il livello di assistenza alla popolazione non diminuisce - ma mi accorgo ancora una volta che questo periodo di post terremoto ha coinvolto me e quanti con me hanno lavorato non solo in termini professionali, di efficacia ed efficienza, di lavoro e di impegno.

Stare all’Aquila per me, per noi, ha rappresentato una scelta di vita, una sfida con noi stessi, un impegno da mantenere, una promessa che fai senza aver precisa cognizione di cosa comporti il mantenerla ma che non accetteresti mai di non onorare: aiutare le vittime di una catastrofe fino al momento in cui ti rendi conto che la tua cura, la tua dedizione ed attenzione, il tuo supporto non sono più indispensabili.
La contraddizione, di profonda umanità, di questa promessa sta nel fatto che, dal momento in cui la pronunci, ti obblighi a lavorare con tutte le energie a tua disposizione, senza risparmio, solo per accelerare il momento in cui le persone cui ti dedichi potranno fare a meno di te.

Abbiamo vissuto un tempo lunghissimo, quasi dieci mesi, in una terra, tra i suoi abitanti, non avendo in mente altro che la promessa fatta, una stretta di mano, una sorta di antico contratto siglato senza carta e senza documenti, ma con la solennità di un impegno basato sulla fiducia. So bene di affermare con queste parole un’idea che tanti nostri contemporanei, più moderni o post moderni di noi, considerano semplicemente inconcepibile e perciò falsa e mistificante, perché oggi la verità dei rapporti umani andrebbe misurata, secondo loro, soltanto sul foglio di calcolo che contabilizza gli interessi, politici ed economici, che ogni soggetto in relazione con altri per qualunque vicenda umana esprime e fa valere, lavorando soltanto per sé e per i propri obbiettivi.

È questa la ragione per cui, con regolarità, abbiamo letto ed ascoltato le critiche di chi ha visto, nel nostro agire, intenzioni di potere, una sorta di occupazione dell’Abruzzo, un prevaricare l’ordine democraticamente stabilito, oppure una ragione di vantaggio e visibilità politica e di parte, tirata in lungo perché redditizia in termini di consenso, oppure ancora l’intenzione di non mollare le redini e i vantaggi di una grande operazione economica.
Chi ha seguito le vicende aquilane sa che non è passata settimana senza che qualcuno si alzasse a dire la sua in questi termini. Sa anche che non ho reagito, non ho mai perso tempo a star dietro a questo rituale mediatico dello scontro a tutti i costi, quasi che il «bipartitismo» del sistema politico realizzato all’italiana impedisse l’esistenza di qualsiasi altra chiave di lettura della realtà, qualsiasi altra scelta di valori e di vita.

Siamo riusciti all’Aquila nell’obbiettivo, che spesso sfugge in altre situazioni, di realizzare un solido consenso bipartisan sulla assoluta necessità di fare presto e bene ciò che ci eravamo impegnati a fare, non perché convenisse a qualcuno, ma perché era ciò che serviva alla popolazione dell’area colpita dal sisma per raggiungere almeno il punto in cui poter tirare il fiato, con i bisogni essenziali soddisfatti, e poter riprendere il cammino ancora lungo e difficile verso una ritrovata piena normalità di vita. Abbiamo vissuto questi mesi come un investimento di tutti noi stessi, come se fossimo a bordo di una nave in mezzo alla tempesta, responsabili di traghettare al sicuro più di 70.000 passeggeri che la catastrofe aveva obbligato a sfollare da case compromesse e in parte distrutte.

Ho cercato, nel corso della cerimonia del passaggio delle consegne a Coppito, due giorni fa, di fare il punto del nostro viaggio, per permettere al nuovo comandante della nave di aver chiare le coordinate della rotta seguita e decidere il percorso futuro. Ho ricordato le fasi dell’emergenza, ho schematizzato cifre e numeri che aiutano a farsi un’idea del percorso compiuto da quel drammatico 6 aprile, a rendersi conto di come sia stato corale, da parte di tutta l’Italia, l’aiuto all’Abruzzo ferito. Le schede che ho utilizzato sono pubblicate sul nostro sito, ad esse rimando per ogni informazione puntuale.

Qui voglio soltanto dire delle nostre, delle mie ragioni, del mio sentire lasciando L’Aquila e del mio grazie alla stragrande maggioranza delle persone che ho incontrato qui, e non sul web o negli studi televisivi, che hanno compreso e seguito con affetto e stima il nostro lavoro, la radice ben più antica del nostro impegno, che si sono sentiti la controparte del contratto sulla fiducia di cui parlavo e ci hanno espresso con generosità il loro apprezzamento perché stavamo onorando la parola data.

Sono gli aquilani che mi hanno fatto sentire aquilano, accettandomi tra loro con ciò che facevo, con ciò che sentivo, in un comune desiderio di non rendere vano, a nessun costo, il lavoro comune, condiviso nei fatti e nella vicinanza dello sforzo fatto insieme. Lo stesso hanno provato i miei collaboratori, che come me faticano a considerare conclusa la nostra esperienza in questa terra, con le persone che la abitano. Persone concrete, impastate come noi di bene e di male: nessuna idealizzazione, nessun compiacimento nel dire di noi e della gente di qui come se fossimo tipi umani particolari ed altrove introvabili. Abbiamo trovato qui nostri concittadini, con le idee dell’Italia di oggi, con le contraddizioni e le debolezze della nostra cultura, ma anche con le risorse di umanità che ci fanno sentire fratelli accomunati da una storia comune, che ci fanno sentire orgogliosi di essere italiani.

È difficile, non per la testa ma per il cuore, lasciare di botto una vita che è diventata la nostra, nei mesi scorsi, a forza di fatica e poche ore di sonno. È come lasciare un paese del quale, finalmente, si è imparata la lingua, difficile perché insieme all’uso del vocabolario che hai appreso lasci quanti te lo hanno insegnato, ti hanno aiutato nel fare esercizio, soprattutto hanno riempito le nuove parole di significati e di senso.

Per questo chiedo, chiediamo, con molto garbo e fermezza insieme, di rinviare più avanti gli inviti a tornare all’Aquila, le manifestazioni di affetto e di apprezzamento, le cerimonie e le rimpatriate. Dateci il tempo di recuperare i tempi del cuore, dateci il tempo di recuperare un equilibrio che oggi è precario e forzato dalla mia e nostra intenzione di non metter davanti le ragioni di ciascuno di noi, rendendo più difficile il lavoro di chi viene dopo di noi per proseguire il lavoro iniziato e portarlo a compimento, in un percorso non meno difficile ed impegnativo di quello che abbiamo insieme compiuto.

La testa, la razionalità mi dicono che abbiamo concluso la nostra parte, che non abbiamo rimpianti per le energie spese, che lasciamo alle nostre spalle un lavoro che poteva essere forse migliore ma certamente è solido, consistente, duraturo. Non è fatto solo di costruzioni ed edifici, case, scuole, luoghi di culto, sedi di infrastrutture e servizi indispensabili a riprendere una vita il più possibile normale, ma anche di conoscenza. In questi mesi le terre del terremoto sono state analizzate palmo a palmo, come mai in precedenza, fornendo a chi deve pilotare la ricostruzione ogni elemento utile a decidere soluzioni assolutamente sicure per ogni cosa che vada restaurata o rifatta, tenendo conto di ogni manifestazione possibile dei rischi presenti sul territorio, quello sismico in primo luogo ma anche idrogeologico.

Lasciamo conoscenza anche nella gestione di un territorio dopo una catastrofe. Fare il sindaco, gestire una amministrazione prima o dopo un disastro non è la stessa cosa. Chi governa, chi amministra si trova di fronte problemi e difficoltà mai prima affrontate, occorre un sapere amministrativo diverso che necessariamente bisogna imparare ad usare. Abbiamo costruito questo bagaglio di conoscenza con giorni e giorni di lavoro fianco a fianco con gli Enti locali, le Istituzioni, gli uffici in tutta l’area del cratere, che oggi certamente padroneggiano meglio le manovre anche burocratiche ed amministrative necessarie a far arrivare la nave danneggiata dalla tempesta alla sicurezza di un porto e alla tranquillità delle riparazioni eseguite.

Lasciamo persone più esperte, più consapevoli, più sicure. Lasciamo alla Regione e al Comune dell’Aquila 58 ragazzi abruzzesi, tra i migliori della regione, che abbiamo reclutato per lavorare con noi e fatto crescere in termini professionali ed umani. Ci hanno ripagato con passione, dedizione, tenacia e la dimostrazione concreta che la scommessa sui giovani paga sempre, anche in emergenza. Anche a loro il mio grazie sentito. Lasciamo tanti semi di speranza e di fiducia, lasciamo i colori e la musica dei tanti appuntamenti di «Campi Sonori», lasciamo soprattutto una rete invisibile ma solida di rapporti di collaborazione ed amicizia tra persone e famiglie di qui e le migliaia di donne, uomini, ragazzi, ragazze salite in Abruzzo con la Protezione civile per aiutare quando più forte è stato il bisogno di chi aveva subìto il trauma del terremoto. Nessuno, delle migliaia di persone che si sono date il cambio nei campi, nei Com, alla Dicomac, sulla costa, nei cantieri, appartenenti a tutte le strutture e componenti del Servizio nazionale della Protezione Civile e alle imprese che hanno lavorato con noi, ha finito il suo servizio senza portarsi via un numero di cellulare, la promessa di un appuntamento, i fili di una amicizia che durerà nel tempo.

Detto questo, insieme alla piena fiducia mia personale e di tutti noi nella capacità di chi correrà la prossima frazione di questa corsa verso la normalità, resta soltanto da far quadrare il bilancio del cuore. Dopo aver lottato col tempo scarso per mesi, usando per questo i giorni e le notti, tutti noi che abbiamo vissuto a tempo pieno l’emergenza aquilana, a cominciare da me, avremo bisogno di un po’ di tempo per noi, per riscoprire le nostre normali abitudini dimenticate da mesi, per tornare anche noi alla normalità, per abituarci di nuovo a spazi diversi da quelli aquilani, ad un’aria diversa, ad un panorama con le montagne più lontane, ad albe meno colorate, a tramonti meno caldi e notti meno chiare.

È bene che il nuovo Commissario e i suoi uomini non abbiano tra i piedi i nostri ricordi, i nostri legami affettivi e di vita maturati nei mesi di folle intensità che abbiamo alle spalle, perché devono lavorare guardando avanti e saremmo loro di impiccio col nostro inevitabile misurare tutto il cammino compiuto. È bene andarsene, quando si è fatto il proprio dovere e arriva il cambio.
I nostri occhi saranno fissi all’Abruzzo, le nostre orecchie tese ad ascoltare i rumori del viaggio, finché non avremo la certezza che la nave che ha ospitato le nostre vite a bordo, in un periodo così intenso e vitale, tanto faticoso quanto ricco, non avrà raggiunto le acque sicure del porto verso cui sta navigando.

Buon viaggio, L’Aquila. Buon viaggio, nuovo comandante e nuovo equipaggio, tocca a voi tracciare la rotta, manovrare la nave e non rallentare la navigazione. Fatelo anche per noi: continuiamo a sentirci con voi nel vostro andare, che resta anche il nostro fino all’arrivo.