il 23 aprile 1994

Così L'Aquila Rugby si prese lo scudetto impossibile

Il 23 aprile 1994 a Padova, con una partita perfetta nonostante le previsioni tutte a favore del Milano, i neroverdi conquistano lo scudetto. Ma il trionfo era cominciato già dall'alba

Padova, 23 aprile 1994. Si gioca la finale del campionato di Serie A di rugby. In campo L’Aquila e Milan. Per i neroverdi è uno Scudetto impossibile, dall’altra parte c’è una corazzata piena di campionissimi (Dominguez, Vaccari, i fratelli Cuttitta, Giovannelli e tanti altri), lanciata verso un trionfo dato quasi per scontato. Pure troppo, perché in campo le cose andranno molto diversamente. Per L’Aquila è il quinto scudetto, finora l’ultimo della serie, in una giornata memorabile. Ventidue anni dopo ricordiamo le emozioni di allora con un racconto di Stefano Tamburini, oggi direttore del quotidiano “la Città” di Salerno e all’epoca capo della redazione aquilana del nostro giornale. Quel giorno era uno degli inviati a Padova, pronto a descrivere un trionfo che tutti, in cuor nostro, sentivamo più che realizzabile. Fu lo Scudetto di una città intera, fu davvero una giornata memorabile.

Il giorno in cui la parola impossibile sparisce dal vocabolario aquilano comincia con un sogno che si fonde con un lungo corteo di auto e di pullman, dalla Fontana Luminosa allo stadio Plebiscito di Padova, 511 chilometri di una scia colorata di neroverde e profumata di gloria.

Sì, perché in un’alba che i desideri onirici li vede sbocciare anziché uccidere, si sente distinto il profumo che è molto più che un aroma di primavera, è una favola che si può toccare, sentire, finanche odorare. È il giorno in cui L’Aquila della palla ovale, ma non solo quella, comincia a vincere lo Scudetto impossibile ancor prima di mettersi a giocare contro la squadra che tutti, ma proprio tutti, lontano da qui danno come sicura vincente. È il Milan, non quello del calcio, ma è praticamente la stessa cosa, perché è una delle squadre che Silvio Berlusconi ha messo in piedi senza badare a spese, nel calcio, nel rugby, nell’hockey, una polisportiva che è una fabbrica del consenso a suon di trionfi. Una squadra che non può permettersi di fallire e per questo tutti, o quasi, i migliori giocano con quella maglia.

Però all’Aquila i cuori sono gonfi di speranza, contro ogni pronostico, contro ogni logica. Lungo l’autostrada, prima verso Giulianova, poi verso Bologna e poi verso Padova, ogni sorpasso di un’altra auto con la targa Aq è l’occasione di un colpo di clacson, un saluto agitando i pugni dal finestrino. Saluto ricambiato ogni volta con convinzione, come se ognuno di quei pugni fosse un modo per dare forza a un’utopia.

All’autogrill Montefeltro, sul confine fra Marche e Romagna, teatro di una sosta non concordata sembra di essere allo stadio Fattori. I colori neroverdi del rugby si intrecciano con quelli rossoblù del calcio. Anche questo è un segnale, non ci sono inimicizie particolari ma per i più sfegatati puristi del calcio aquilano, il rugby è “la prugna”. Un modo per tenere le distanze che svanisce, ci sono anche loro – gli ultrà dell’Aquila calcio – a inseguire il sogno impossibile che non è più solo quello del rugby. Il rossoblù si annacqua nel neroverde e il viaggio verso lo Scudetto impossibile prosegue.

Si comincia a contarli, quanti saranno? I pullman sono una decina, le auto sono tantissime. Mille, duemila, tremila? No, gli aquilani sono di più. Sono più di quattromila, un esodo mai visto. E anche ai padovani, che anche loro campano a pane e rugby, se ne accorgono. “il mattino di Padova”, un quotidiano locale del Gruppo Espresso, proprio come “il Centro”, uguale nel formato e nei caratteri di stampa, accoglie questa finale con un titolo in prima pagina che non lascia speranze: “Milan, sarà scudetto bis”. Il pezzo è ancora più esplicito, lo firma Paolo Catella, caporedattore del giornale, espertissimo di palla ovale, uno bravo che poi farà carriera fino a dirigere “la Nuova Sardegna”. In sostanza dice che il risultato è chiuso, che lo scudetto lo vincerà il Milan «e, per dirla brutalmente, L’Aquila sarà già molto se riuscirà a contenere il distacco in 30 punti».

Le copie, complice il passaparola, vanno via a ruba fra i tifosi neroverdi. Tutti si incazzano, bonariamente ma si incazzano e però la chiudono con un «glielo faremo vedere noi a questo Catella, i trenta punti glieli facciamo mangiare». Nessuna minaccia fisica, per carità, nel rugby per fortuna queste cose non esistono ma ci sarà comunque anche un simpatico “dopo” tutto da raccontare, con un gruppo di tifosi che nostro tramite si faranno ricevere per uno sfottò innocuo e una bonaria richiesta di scuse. Catella farà molto di più, due giorni dopo scriverà un bell’articolo per “il Centro” per complimentarsi e chiedere scusa a tutti. Bello, molto bello.

Intanto, prima di pranzo, Prato della Valle, una piazza immensa e bellissima è invasa di bandiere neroverdi, birre e panini vaganti. Poi tutti allo stadio perché la partita comincia alle 14,30 e già un’ora prima il muro aquilano fa da contraltare all’altra tribuna dove cinquecento e poco più tifosi venuti da Milano guardano quasi con compassione.

Sono sicuri di vincerlo quello scudetto e lo sono ancor di più giocatori, dirigenti e tecnici rossoneri. Arrivano allo stadio e involontariamente forniscono altra benzina alle ambizioni aquilane. Dai borsoni dei magazzinieri spuntano i colli delle bottiglie delle magnum di champagne tenute in frigo fino a poco prima. Lo sguardo severo di Massimo Mascioletti, tecnico aquilano, fa capire più di mille parole. È molto peggio di un «ora glielo facciamo vedere noi».

La partita comincia e la grande tribuna con i tifosi aquilani quasi trema quando tutti saltano al ritmo dell’inno alla gioia «chi non salta è milanese». Per una volta i marsicani possono stare tranquilli, il fronte e le ambizioni oggi sono altri.

È una storia fatta anche di segnali, questa. C’era stata vittoria a tempo scaduto di Roma contro la Benetton Treviso nell’ultima giornata della stagione regolare, quella che aveva decretato il sorpasso dell’Aquila Rugby sui veneti e il conseguente vantaggio del fattore campo dell’eventuale sfida decisiva dei play-off. Sfida che poi c’è stata davvero, in semifinale, prima di questo atto che apre alla gloria. La vittoria è sofferta (15-12) grazie anche a un piazzato dell’australiano biancoverde Michael Lynagh che si stampa sul palo e che se fosse entrato avrebbe potuto cambiare il destino dell’incontro. E anche dello scudetto.

Invece i trevigiani (pochi) o sono qui a Padova o davanti alla tv e dicono tutti di sperare, senza crederci, che almeno non vinca Milano. Perché, si sa, le vittime predestinate fanno anche un po’ tenerezza.

Comincia la partita e non si riesce a sentire un coro, un incitamento, per la squadra di Milano. Siamo a Padova ma oggi è provincia dell’Aquila, anzi fuori dal Plebiscito si può tranquillamente staccare la targa e scrivere “stadio Tommaso Fattori”. Segnano prima loro, un piazzato all’ottavo con Diego Dominguez, mediano d’apertura con il piede fatato, uno dei big di una formazione piena di talento e di classe. Tre a zero all’8’, poi 3-3 grazie a un altro piazzato, stavolta di Luigi Troiani (23’), estremo che in questa fase della carriera lascia la maglia numero 15 all’immenso Serafino Ghizzoni, 40 anni e non sentirli. C’è equilibrio, tutt’altro che una passeggiata ed è il gelo quando al 27’ un’altra palla ovale si stampa sui pali aquilani: palo e poi traversa in un sol colpo.

Poco dopo L’Aquila passa in vantaggio con un altro piazzato al 33’: 6-3. Palo-traversa e vantaggio: un doppio segnale, dalla tribuna aquilana parte il primo «vinceremo, vinceremo il tricolor», cori di sfottò verso uno degli avversari più temuti, l’ala Paolo Vaccari. Gli danno del “travestito”, oggi sarebbe molto poco politicamente corretto, ma non c’è niente che sia discriminazione sessuale. È il primo insulto venuto in mente e che nessuno allora si sogna di bollare come omofobo, è come un placcaggio, serve a stordire il ragazzo di Calvisano che è fra le star di quella formazione.

L’euforia non si placa neanche quando a cavallo fra la fine del primo tempo e l’avvio di ripresa una meta di Pedroni (36’) e un piazzato del solito Dominguez (1’) rovesciano il punteggio. Nessuno smette di crederci, anche perché il distacco è minimo, 11-6. Dominguez ha altri due calci da piazzare e li sbaglia ed è come se quei palloni fossero telecomandati fuori dai pali con le onde del pensiero di tutti quelli che si sono fatti silenziosi in tribuna. Si sente distintamente il fruscio dei tacchetti sull’erba, il colpo sotto e quando la palla esce la tribuna torna a tremare. E ripartono i cori.

In campo lo sentono che quelli là fuori ci credono più di loro e si rimettono in moto, come un’onda, una squadra che si muove a memoria, che trova la forza negli altri, come solo nel rugby può essere.

Poi tocca di nuovo a Troiani andare a piazzare. È il settimo minuto del secondo tempo e sembra che questa partita sia in corso da un giorno intero, tanto è lento lo scorrere del tempo. Sono tantissimi quelli che si voltano per non vedere, non perché non ci credano, è solo per soffrire meno. Il silenzio degli altri fa capire che è andata male ma nessuno si deprime. Anzi, quando sette minuti dopo, al 14’, Troiani ha una nuova chances stavolta non si volta nessuno.

Il boato sembra non finire mai, siamo sull’11-9, sono avanti ancora gli altri ma è come se fosse già vinta: basta guardarli in faccia i rossoneri, sono terrei. Pensavano di vincerla chissà di quanto, di passeggiare, e invece sono lì che soffrono, con L’Aquila che preme e due minuti dopo (16’) pressa e sfonda. Meta! La segna Danie Gerber ed è sorpasso: 14-11. Troiani non trasforma ma da quel momento è come se cominciasse un conto alla rovescia lentissimo ma per certi versi ancora più gustoso.

Vedo gente tenersi per mano, altri che fanno il segno del silenzio con l’indice sul naso. Gli sguardi dicono più di mille parole ed è bellissimo questo momento in cui si capisce che lo Scudetto impossibile sta per diventare una splendida e maestosa realtà. Da sotto la tribuna spunta un gigantesco scudetto di cartone, portato dall’Aquila e ben nascosto fino a quel momento. Manca più di mezzo tempo ma altri tre calci di Troiani (19’, 34’ e 38’) rendono inutile quello di Dominguez (36’).

È l’attesa della gioia che rende gioiosa la stessa attesa. L’orologio segna le 16,14 quando la festa può esplodere come nessuno poteva immaginarla. Ci finisco dentro insieme con altri colleghi, stringo mani di gente appena conosciuta, ricevo abbracci, pacche sulle spalle, vedo padri di famiglia che piangono sulle spalle delle mogli che piangono anche loro. E come si fa a non sentirsi felici in un momento così: è una notte mundial in pieno giorno, c’è chi scavalca e va in campo mentre giocatori e allenatore saltano, ballano, ridono e piangono e si asciugano lacrime di gioia immensa e infinita. Roba che resterà dentro per sempre, di fatto questa partita è come se non si fosse mai chiusa. Perché quel giorno non vinse una squadra, ma un’intera città, perché in quattromila erano lì ma tutti gli altri erano davanti al televisore che trasmetteva la diretta dello Scudetto impossibile che diventava realtà.

Nessun vuol più uscire dal campo o lasciare la tribuna dove tutti cantano e ballano. Ci sono lacrime di gioia da asciugare con bandiere destinate a diventare trofei del giorno sportivamente più bello, purtroppo inarrivabile. E anche se un domani dovessero essercene altri di scudetti, questo resterà diverso dagli altri, inarrivabile.

Lo scudetto di cartone gira sulle teste di quelli che sono in campo, tutti lo stringono come se fosse un coppa. Non c’è una cerimonia in campo e quello è come se fosse il trofeo, più bello di quello che poco dopo sarà consegnato durante il terzo tempo.

L’allenatore Mascioletti vola in aria tirato su dalle braccia possenti dei suoi giocatori. Poi scende, corre come se non ci fosse un domani stringendo una sciarpa neroverde. Lo intervistano in venti, trenta, mai visti tanti giornalisti tutti insieme. Ripete che è «la vittoria della città, che già sul tre pari ha capito» e poco più in là ci sono i giocatori del Milan a capo chino, si avvicinano e si congratulano. «Bravi, ve lo siete meritato», dice il tecnico Sergio Carnovali. «L’Aquila è venuta per vincere, noi pensavamo di aver già vinto e invece...» è l’estrema sintesi di uno sconsolato Massimo Cuttitta, capitano del Milan, uno che con la maglia neroverde ha giocato e conosce il carattere degli aquilani: «Io lo dicevo che non bisognava prenderla alla leggera e invece...».

Il terzo tempo sotto lo stadio è tutto un fiume di champagne, quelli del Milan regalano le loro bottiglie («Tanto a noi non servono più»). Comincia a calar la sera e c’è da raccontarla questa storia. Le pagine previste, anche per scaramanzia, erano appena quattro e ovviamente si moltiplicano; andiamo a scrivere proprio alla redazione del “mattino di Padova” e cominciamo a sfiorar le tastiere con la stessa leggerezza della festa appena vissuta, con i colleghi – molti dei quali appassionati di palla ovale – che un po’ ci invidiano. Ricordo ancora come chiusi il servizio principale: «Ora non ci resta che gioire». Ventidue anni dopo mi sembra di essere ancora lì.

@s__tamburini

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