Gioacchino Volpe e le memorie  della città che fu 

Ripubblicata la raccolta di articoli del grande storico italiano Nel volume L’Aquila e Paganica sono i luoghi del cuore

L’AQUILA. Gioacchino Volpe (Paganica 1876-Sant’Arcangelo di Romagna 1971) è stato uno dei più grandi storici italiani del Novecento. Fondamentali i suoi studi sulla nascita dei Comuni nel Medioevo. Ma Volpe ci ha lasciato anche un libretto (che raccoglie sei articoli che in origine uscirono su “il Tempo”) dal titolo “Ritorno al paese (Paganica), memorie minime”. Il libro è stato ripubblicato di recente nella collana “La provincia letteraria” della Fondazione Carispaq e ha la prefazione di Valerio Valentini, giovane scrittore aquilano autore di “Gli Ottanta di Camporammaglia” vincitore del premio Campiello opera prima nel 2018.
Alla presentazione, che si è svolta all’auditorium “Sericchi” della Bper hanno partecipato il curatore della collana, il professor Carlo De Matteis, il presidente della Fondazione Carispaq Marco Fanfani e il senatore Gaetano Quagliariello ex docente dell’Università dell’Aquila e oggi alla Luiss. Ha moderato l’incontro la giornalista Angela Ciano. Ha presenziato anche Amedeo Volpe, pronipote dello storico.
Il libro rivela un Volpe che si destreggia bene con la narrativa e ci restituisce immagini dei luoghi della sua infanzia. In un passaggio descrive L’Aquila, come l’aveva vista all’inizio degli anni Venti del secolo scorso. Sono poche “pennellate” ma che ci raccontano una città d’altri tempi pur se alcuni tratti caratteristici li ritroviamo ancora oggi.
«Era l’aprile del 1920, ed io, nato a Paganica, ma milanese allora di adozione o consuetudine di vita, tornai a rivedere il natìo Abruzzo», scrive Volpe, «mi fermai due giorni all’Aquila e in quei due giorni, battei in lungo e in largo la bella, ariosa e luminosa città, che alta sopra il suo poggio, ad oltre 700 metri sul mare, vede alle sue spalle e davanti levarsi i due giganti dell’Appennino, Gran Sasso e Majella, e ai suoi piedi scorrere fra alti pioppi e salici l’Aterno, poi Pescara. Volevo, non tanto vedere le cose nuove, se pur ve ne erano, quanto rivedere le cose vecchie, rivederle con occhi di 40-45 anni, dopo che le avevo viste, spesso senza guardarle, con occhi di 8, di 10, di 12 anni. Cercai alcuni palazzi ancora grandeggianti davanti ai miei occhi: Dragonetti, Centi, Rivera, altri. Ma il bello dell’Aquila non era tutto in questi suoi grandi palazzi. Andando alla ventura per strade e stradette, rinfrescai la visione di antiche botteghe e di solide case borghesi fatte, di buona pietra e patinate dal tempo, dalla vecchia borghesia aquilana venuta su con gli uffici, con le professioni liberali, col commercio, a largo raggio, dello zafferano, delle mandorle, della lana, della seta. Piazza Castello... fermiamoci un momento in questa piazza, al cospetto della grande, severa, massiccia mole del Castello, opera cospicua di architettura militare cinquecentesca, che “dalla cintola in su tutto si leva”, come il Farinata dantesco, dal fossato profondo su cui poggia i piedi». E poi parlando della basilica di Collemaggio: «Assai familiare era a me quella chiesa, che si leva in solitudine fuori della città. Da ragazzo, avevo abitato, per due anni, lì vicinissimo: e tutte le mattine (d’inverno, rompendo col petto la neve), passavo lì davanti per andare a scuola, oltre un chilometro lontana. Era un pomeriggio sereno, quel giorno di aprile. Ed i marmi bianchi e rosa della facciata si illuminavano, si accendevano, flammeggiavano, per riflesso del sole calante che dall’opposto orizzonte vi dardeggiava sopra. Da Collemaggio passai a rendere tributo a Santa Maria di Paganica, la chiesa dei Paganichesi, degli antichi padri miei paganichesi, quando, nel Duecento, concorsero con altri castelli della valle alla fondazione della città. Poi, ancora, la chiesa di San Bernardino, consacrata dagli Aquilani del Cinquecento al grande predicatore e santo, caro a mia madre senese».
Quando arriva a Paganica lo storico incontra persone e rivede i posti dove è cresciuto fino all’età di 14 anni.
In Volpe, scrive Valerio Valentini nella prefazione «c’è, specie se riconsiderata nel suo lento farsi e modificarsi, una Paganica, una umanità di provincia, che proprio nei suoi cambiamenti, mantiene una inconsapevole, spesso disperata, fedeltà a se stessa. E però non sta mai ferma: asseconda in certi passaggi gli stravolgimenti che agitano il Paese; altre volte vive in ritardo – ma come in modo più repentino e traumatico – quei mutamenti. È l’Italia vista dalla periferia dell’Aquila: che poi, appunto, è l’Italia».
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