I tesori della chiesa di Sant’Egidio tempio a 1.680 metri

Gli archeologi riportano alla luce ceramiche e monete Risale al 1100, dal 1538 divenne un ricovero per i pastori

L’AQUILA. Nascosto tra le cime di Campo Imperatore, a 1680 metri di altezza, un cumulo di pietre bianche era tutto ciò che restava dell’antica chiesa di Sant’Egidio. A conoscere quel posto erano soprattutto i pastori che dal Tavoliere delle Puglie, ai primi caldi, raggiungevano l’Abruzzo per trascorrere l’estate al fresco. Spesso con le loro greggi si fermavano ai piedi del monte di San Gregorio, una volta detto Monte Sacrario, tra quelle bianche pietre, trasformate col tempo in un rifugio tra le montagne.

A riportare alla luce l’antica chiesa sono state le indagini archeologiche dei mesi scorsi, nate da un progetto dell’Amministrazione separata di Paganica e San Gregorio, condotte dalla Soprintendenza e realizzate con il contributo della Fondazione Carispaq, col patrocinio del Parco. I risultati delle ricerche sono stati presentati dagli archeologi che si sono occupati dello scavo, diretti da Rosanna Tuteri della Soprintendenza: Alessio Rotellini responsabile del progetto, Luca Porzi, Achille Giuliani e Alessia De Iure.

«Della chiesa di Sant’Egidio non sapevamo quasi nulla», ha spiegato Rotellini. «Compare nella documentazione del 1138, ma per avere una notizia certa bisogna attendere il 1362. L’ultima notizia risale al 1538. Da allora la struttura venne utilizzata come ricovero dei pastori transumanti».

È anche per questo che nessuno poteva immaginare che gli scavi avrebbero portato alla luce, sotto quel mucchio di pietre bianche, una chiesa a navata unica con transenna presbiteriale quasi completamente leggibile e numerosi reperti ceramici e numismatici. CHIESA. «La pianta è rettangolare: 11 per 4 metri circa», ha spiegato Porzi. «Ha un’unica navata divisa in due parti: lo spazio del clero e quello dei fedeli. Dell’altare non rimane traccia. Il pavimento doveva essere rivestito con scaglie di pietra».

CERAMICA. «Tra i reperti più antichi alcuni frammenti di ceramica pettinata che viene datata fino al XV-XVI secolo», ha detto De Iure. «Abbiamo però trovato anche resti di maioliche del ’900, periodo in cui nostri genitori e nonni utilizzavano ancora il sito come ricovero pastorale». Tra i resti più interessanti alcune pareti di boccali con decorazioni a rilievo applicata raffiguranti delle stelle, appartenenti al XIII secolo e un frammento di maiolica in stile compendiario del XVI secolo, con il viso di un santo. «Importanti produzioni di riferimento sono a Castelli, Anversa degli Abruzzi e Penne», continua l’archeologa. «Abbiamo anche confronti puntuali con materiali dallo scavo del complesso di San Domenico all’Aquila».

MONETE. Setacciando la terra sono state rinvenute 80 monete. «Sei in argento, 40 in mistura (lega tra rame e argento) e 34 in rame, tutte appartenenti al periodo tra il XII e il XVIII secolo», spiega Giuliani. «Le zecche di provenienza coprono quasi tutta l’Italia: una delle monete arriva da Venezia, 12 dal centro Italia, soprattutto dall’Aquila e da Roma, ma anche da Lucca, Firenze, Bologna e Urbino e due dal Sud: Brindisi e Napoli». Alla presentazione dei ritrovamenti hanno partecipato, tra gli altri, anche Fernando Galletti, presidente dell’amministrazione separata, Marco Fanfani, presidente della Fondazione Carispaq, la soprintendente Maria Alessandra Vittorini e Betty Leone, assessore comunale alla Cultura. (m.c.)

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