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In carcere da innocente, risarcito

Camionista fermato per un soprannome sbagliato nelle intercettazioni

SAN BENEDETTO. Sette mesi di galera da innocente. Lo Stato lo risarcisce con cinquantamila euro, ma il segno della sofferenza del carcere rimane come un marchio a fuoco. «Solo la fede, la devozione per Santa Maria Goretti e il sostegno di mia figlia mi hanno permesso di andare avanti. Non porto rancore per la giustizia, ma per i modi della giustizia».

A parlare è Antonio Francesco Di Nicola, autotrasportatore di San Benedetto dei Marsi, finito in cella a causa delle intercettazioni tra altre persone che lo chiamavano in causa, ma con un soprannome che non era il suo, bensì di un altro.

Nelle telefonate si parlava di un certo Francesco detto Broccolone e si sosteneva che aveva trasportato dalla Spagna 22 chili di droga nel periodo dal 30 maggio al 3 giugno 2005. Ma il soprannome di Di Nicola è Cozzolino e in quel periodo si trovava da tutt'altra parte. Lui è stato arrestato per traffico internazionale di droga.

L'ultimo capitolo della drammatica storia del camionista marsicano, difeso dagli avvocati Roberto Verdecchia e Sara Capoccetti, è stata scritto dalla Corte d'Appello di Roma. All'uomo è stata riconosciuta una somma di 50mila euro di risarcimento per ingiusta detenzione.

«Quella mattina stavo rientrando da un viaggio nello stabilimento dove lavoro», racconta Di Nicola, «avevo appena salutato i cani da guardia quando entrò un'Alfa 156 con due persone a bordo. La dobbiamo arrestare, faccia allontanare i cani: mi hanno detto. Sono andato a casa e dissero a mia moglie che dovevano portarmi all'Aquila. Un dramma. Inizialmente ho ottenuto i domiciliari. Ma pochi giorni dopo, il 12 dicembre 2007, mi hanno prelevato intorno alle 9.30 sostenendo che dovevo essere ancora interrogato. Da allora a casa non sono più tornato».

Nel carcere dell'Aquila è cominciata la sua odissea. «Ho perso 25 chili» racconta Di Nicola. «Un giorno», ricorda, «mi hanno messo in cella con un ragazzo di Celano. Dopo quattro mesi ho iniziato a fare il cuoco del carcere. Una volta mi sono imbattuto anche in Sandokan, Francesco Schiavone, uno dei capi del clan dei Casalesi. La mia famiglia mi ha sempre difeso».

«Ma in molti ci hanno voltato le spalle», interviene la figlia Domenica, che si è occupata di tutte le questioni burocratiche riguardanti la vicenda, «e non è stato facile». Lei porta sul braccio un tatuaggio con una frase di Jovanotti: «A te che sei la sostanza dei giorni miei». La stessa scritta se l'è fatta tatuare anche il padre. Il 5 luglio la svolta.

«Ero sulla brandina della cella e davanti agli occhi ho immaginato la figura di Santa Maria Goretti che avevo tanto supplicato. Ho sempre avuto fede. Dopo due giorni sono arrivati quattro agenti penitenziari e mi hanno detto che ero libero, non ai domiciliari, proprio libero. Mi sono sentito male».

Poi la parola fine al caso giudiziario. «Quando abbiamo vinto il processo per ingiusta detenzione mi sono tornati in mente i giorni di sofferenza in carcere», afferma Di Nicola, «oggi sento solo la necessità di dire grazie al mio avvocato e a mia figlia. Anche lei e l'altro mio figlio possono tornare a camminare a testa alta e dimenticare tutta questa storia. Nessuno mi ridarà sette mesi di libertà».

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