Nove Martiri, ecco i perché della strage

Walter Cavalieri rievoca il tragico episodio del settembre 1943, una vicenda che segnò l’avvio delle atrocità naziste

Sono trascorsi 70 anni da quel 23 settembre 1943. All’indomani dell’armistizio, l’Italia si era ritrovata spaccata in due lungo l’Abruzzo da quella linea “Gustav” che era la prima difesa della “fortezza Europa” dinanzi all’avanzare degli anglo-americani. La fuga del re, lo sbandamento dell’esercito, la liberazione di Mussolini si erano consumati nell’arco di soli quattro giorni. Tutto si era svolto in tempi talmente rapidi ed in circostanze così tumultuose che moltissimi militari e tutti i civili, erano stati costretti nel giro di pochissimi giorni o persino di ore, tra mille incognite, a compiere fondamentali scelte di campo, anche se spesso condizionate da circostanze oggettive.

Ma andiamo per ordine, partendo dalle premesse. L’11 settembre il maresciallo Kesserling aveva emanato il suo primo bando col quale dichiarava l'Italia “territorio di guerra” e minacciava la fucilazione con giudizio sommario per tutti i “franchi tiratori”, cioè i civili sorpresi con le armi in pugno.

I primi tedeschi giunsero all’Aquila, il 14 settembre (due giorni dopo aver liberato Mussolini dal Gran Sasso) e quasi subito emanarono un bando di presentazione col quale entro cinque giorni tutti i giovani dai diciotto anni in su dovevano farsi registrare dalle autorità di occupazione. Questa procedura venne avvertita da parte di molti giovani aquilani come una minaccia di futuri arruolamenti o d’impiego in attività lavorative forzose, per cui, di fronte al pericolo di essere presi dai tedeschi e portati chissà dove, centinaia di loro, soprattutto in età di leva, potenziali obiettivi della vendetta nazista, raggiunsero le montagne (verso Paganica, Arischia, Ocre, Lucoli) non tanto per scelta morale quanto per istinto di conservazione, unendosi al flusso dei soldati sbandati e degli ex-prigionieri.

Compito dello storico è porsi delle domande, alcune delle quali non avranno risposta. Quali erano le reali intenzioni dei tanti giovani che lasciarono la città?

Sicuramente lo scopo iniziale era quello di sottrarsi al bando nascondendosi in campagna o in montagna in attesa degli eventi. Se però si fosse trattato solo di questo, il gruppo di una quarantina di giovani che zaino in spalla, volti tirati, lasciarono la città la sera del 22 settembre dal quartiere di Santa Maria Paganica non avrebbero portato armi con sé (una quarantina di moschetti, pistole, caricatori e una cassetta di bombe a mano) e avrebbero pensato semmai a discolparsi con dei pretesti, piuttosto che rischiare di essere fucilati. Se questi giovani si assunsero dei rischi ulteriori rispetto ai loro coetanei, ciò accadde perché in loro vi erano altre motivazioni oltre al puro istinto di conservazione. Nella loro scelta contò molto la fiducia che riposero nel tenente colonnello Gaetano D’Inzillo, col quale i giovani entrarono in contatto mediante il figlio Bruno. Vi furono riunioni clandestine con l’ufficiale, la cui presenza entusiasmò i giovani, i quali si fidarono di lui e del suo grado. Il progetto non era del resto così azzardato: i ragazzi avrebbero dovuto lasciare la città alla spicciolata, prelevare armi durante il percorso e radunarsi a Collebrincioni, dove li avrebbe raggiunti lo stesso colonnello D’Inzillo assieme ad altri militari con armi pesanti, per recarsi tutti insieme nel Teramano e congiungersi ai 1600 civili e militari che proprio in quei giorni si stavano arroccando a Bosco Martese, anche lì sotto la guida di ufficiali badogliani. Dunque le armi sarebbero servite inizialmente solo per un’eventuale autodifesa contro le pattuglie tedesche, salvo poi usarle in prospettiva, per condurre azioni offensive sotto la guida di militari esperti.

Si rendevano conto della sproporzione delle forze?

Luigi Braccili definisce “per lo meno pazzesca” l’idea che questi ragazzi potessero sfidare i primi reparti tedeschi giunti all’Aquila, pochi ma agguerriti soldati, veterani della Francia e della Russia, e poi combattenti straordinari a Cassino. Contro questi uomini, che speranza avevano quei giovani male armati e con l’esperienza risibile dell’addestramento pre-militare? Fu quindi incoscienza? Fiducia eccessiva nella conoscenza del territorio? Esuberanza giovanile, spirito di avventura, impulsività? Personalmente credo che la loro azione temeraria possa essere stata dettata soprattutto dalla fiducia derivante dall’esistenza di una regìa militare. D’altra parte, ovunque in Italia la Resistenza porta, prima ancora dei colori dei partiti, le stellette di quei soldati che non avevano voluto piegarsi al disonore.

Chi li guidava?

Comunemente, la responsabilità dell'intera vicenda si fa ricadere solo sul già citato tenente colonnello D’Inzillo, il quale era solito origliare radio-Londra e sicuramente ascoltò anche l’incitamento badogliano di “darsi alla macchia” diffuso da radio-Bari il 16 settembre. Ma è certo che D’Inzillo non agì da solo. Egli aveva accanto un piccolo numero di colleghi (graduati della caserma AUC, un sottufficiale del Distretto, un carabiniere e pochi altri) che fornirono le armi che i ragazzi portarono con sé a Collebrincioni. Di questo gruppetto di ufficiali il D’Inzillo era il più alto in grado, ma non era purtroppo un vero capo militare: era anzi un militare mediocre, congedato nel 1920 col grado di capitano, richiamato nel 1940 e promosso colonnello senza alcun merito bellico. Un soldato di altra pasta avrebbe potuto fare molto meglio. Ma L’Aquila non ha avuto come a Teramo un capitano, Ettore Bianco, o come a Chieti, un tenente, Carmelo Isaia. E d’altra parte, ufficiali esperti come Ricottilli, Sciuba o Rasero andranno a dirigere solo più tardi la lotta partigiana nell’Aquilano.

Riunitisi come previsto a Collebrincioni, i giovani armati attesero fiduciosi nella notte di essere raggiunti dal D’Inzillo e dagli altri ufficiali, dai muli e dalle mitragliatrici pesanti. Tutto questo non accadde, e tuttavia quei ragazzi mantennero fino all’ultimo uno spirito alto, rassicurati dalla presenza nella zona di una trentina di ex-prigionieri alleati, uomini ben addestrati al combattimento. Non si rendevano conto che forse i tedeschi stavano dando la caccia non a loro, ma soprattutto a quei veterani stranieri usciti dai campi di detenzione.

E infatti dall’alba del 23 settembre una compagnia di paracadutisti tedeschi comandati dal tenente Hassen, lanciò un rastrellamento tra la montagna di San Giuliano e Collebrincioni procedendo fra l’altro a una rude ispezione del convento.

Perché i giovani furono catturati?

Le ipotesi qui sono due: o i tedeschi alla ricerca di prigionieri s’imbatterono per caso anche in quei ragazzi, oppure andarono a colpo sicuro, sulla base di una circostanziata delazione. Escluderei che i tedeschi fossero richiamati dall’incauta esplosione di alcuni colpi di pistola (tanto per provare le armi) provocata da alcuni giovani, anche se su di essa s’imbastì nel dopoguerra un delicato processo penale, i cui atti sono tuttora secretati a norma di legge.

La tesi della spiata, sicuramente nota al comando della Milizia, potrebbe provare peraltro la rinuncia di D’Inzillo, amico del console Masciocchi, a raggiungere il gruppo di cui faceva parte anche suo figlio. Sta di fatto che appena i nemici giunsero a Collebrincioni, gran parte dei giovani e dei prigionieri fuggì verso Monte Castellano, contro il quale i tedeschi muniti di binocoli iniziarono a sparare colpi di mitragliatrice. Ci fu un tentativo di rispondere al fuoco, una disperata e impari sparatoria nel corso della quale fu subito ferito Umberto Aleandri. Dieci dei suoi amici, anziché disperdersi per la collina abbandonando le armi, restarono con lui, benché egli l’implorasse di allontanarsi. Accerchiati anche dall’alto, furono tutti prontamente disarmati e catturati, e ricondotti sulla piazza del paese, inquadrati e nella tarda mattinata condotti a piedi da Collebrincioni alle Casermette dell’Aquila (tranne Umberto Aleandri, ricoverato in ospedale).

Informati da gente del luogo, i familiari tentarono in ogni modo di scongiurare un esito tragico. Ma a nulla valsero i loro sforzi, anche perché l’arcivescovo Confalonieri, unica “autorità supplente” riconosciuta dai tedeschi, era impegnato a proteggere i religiosi nel convento di San Giuliano.

Perché furono fucilati? Quello che accadde alle Casermette (le attuali caserme Pasquali e Campomizzi) rispose solo alla ferrea logica militare e all’autonomia tipica dei reparti operativi germanici. Gli ex-prigionieri alleati protetti dalle garanzie del diritto internazionale vennero nuovamente internati (qualcuno di loro morirà nel bombardamento della stazione l’8 dicembre), ma i dieci civili catturati con le armi vennero considerati senza processo “franchi tiratori” e, seduta stante, condannati a morte, ad eccezione di Stefano Abbandonati, graziato in extremis perché ritenuto incapace di usare le armi a causa di una invalidità. Come si apprenderà da un rapporto ufficiale, il tenente Hassen si consultò solo col suo superiore capitano von Wolff e quindi procedette alla fucilazione. Intorno alle 14,30 i nove giovani furono costretti a scavare due fosse comuni, dentro le quali furono abbattuti (cinque in una e quattro nell’altra) da un plotone misto di tedeschi e fascisti.

I 9 fucilati sono, in ordine alfabetico: Anteo Alleva, di soli 17 anni, il più giovane del gruppo; Pio Bartolini, soldato ventunenne; Francesco Colaiuda, 18 anni; Fernando Della Torre, 20 anni; Berardino Di Mario, 19 anni; Bruno D’Inzillo, 19 anni; Carmine Mancini, 19 anni; Sante Marchetti, 18 anni; Giorgio Scimia, 18 anni.

Perché non fu resa nota l’avvenuta fucilazione? Lutz Klinkammer ci spiega che in Italia si scontrarono nei primi mesi di occupazione due logiche, una puramente militare (rappresentata al vertice del Reich da Keitel) tendente a dare carta bianca ai reparti operativi, e una più “politica” (sostenuta da Goebbels) che mirava piuttosto al controllo dell’opinione pubblica e allo sfruttamento delle risorse economiche. In piccolo, queste due linee ebbero nella vicenda dei Nove Martiri i loro sostenitori, la prima nel citato tenente paracadutista Hassen e l’altra nel sottotenente di fanteria Klauser (primo responsabile della Platzkommandantur dell’Aquila), sicuramente interessato a prevenire ogni motivo che potesse surriscaldare la piazza affidatagli, fino ad allora del tutto tranquilla. In sostanza i tedeschi preposti all’occupazione erano interessati a non dare adito ad alcuna reazione ostile da parte della popolazione, il che avrebbe consentito loro di non disperdere le loro forze e di “bonificare” l’importante retrofronte Aquilano, onde allestirvi le strutture logistiche (si pensi al deposito di Lucoli) che poi avrebbero dato all’Aquila un ruolo centrale nell’apparato militare tedesco. Non a caso la fucilazione dei Nove non avvenne sul luogo della cattura, ma nella zona delle Casermette più appartata e lontana dalla strada. Le esigenze di Hassen e di Klauser si compenetrarono solo a esecuzione avvenuta, dal momento che lo stesso tenente Hassen, rientrato dal rastrellamento la sera del 23, e fornita conferma in prefettura e in arcivescovado dell’avvenuta esecuzione, vietò che si tenessero i funerali delle vittime, il che avrebbe potuto destare il risentimento della mite popolazione aquilana. Anche i fascisti repubblicani si mossero in questa logica della normalizzazione, tentando di minimizzare l’accaduto e di avvalorare l’ipotesi che i giovani fossero stati deportati e non fucilati. E poiché nessuno aveva visto le salme, si disse che i tedeschi avevano solo fatto credere di aver ucciso i giovani per spaventare eventuali altri patrioti. Per motivi diversi (non certo per collaborazionismo), ma coi medesimi effetti, l’arcivescovo Confalonieri evitò di condannare l’accaduto e preferì tacere, perseguendo quello che ritenne essere il bene della Città e della cittadinanza. Questa congiura del silenzio, alimentò soprattutto in alcuni dei familiari la speranza che i Nove non fossero stati effettivamente fucilati, ma deportati in Germania o in Polonia. Fino al tragico rinvenimento delle salme, il 14 giugno 1944. Il resto (quanto avvenuto dopo la liberazione) è storia nota: i solenni funerali del 18 giugno, l’intitolazione ai Nove Martiri della piazzetta “XXVIII ottobre”, l’erezione del sacrario al cimitero. Meno noto è che del battaglione alpini “Piemonte” del Cil fecero parte, fra gli altri, nove volontari aquilani che, essendo tutti giovanissimi e ispirati agli stessi ideali dei Nove Martiri giovinetti, rappresentarono una sorta di simbolica continuità della Resistenza aquilana. Dagli anni Cinquanta, la storia di questa pagina di storia iniziò a essere minimizzata se non addirittura ridicolizzata e la Città prese a giudicare la tragica disavventura di quei giovani poco più di una ragazzata.

La ricerca storica successiva ha reso giustizia a questi ragazzi, la cui scelta generosa avrebbe potuto costituire un esempio per una Città che dopo l’8 settembre 1943 non oppose, nell’immediato, alcun’altra significativa resistenza all’occupazione nazista. Certo, quello dei Nove Martiri rimane un piccolo e isolato episodio all’interno dell’immane tragedia della guerra, non paragonabile quantitativamente agli spaventosi eccidi di Marzabotto, delle Ardeatine o della nostra Pietransieri. Eppure, quello avvenuto sulle alture di Collebrincioni viene oggi ricordato come uno dei primi scontri armati avvenuti in Italia tra civili italiani e militari tedeschi. Di qui l’importanza che il settantesimo anniversario venga degnamente celebrato in una Città come la nostra che tende a dimenticare la sua storia, con grave danno sulla sua già barcollante identità.

*L’autore dell’articolo, Walter Cavalieri, è un docente e storico che si è occupato delle vicende aquilane legate alla seconda guerra mondiale. Il suo libro più noto che è ormai una “bibbia” per tutti coloro che volessero approfondire il periodo 1940-1945 si intitola “L’Aquila in guerra”. Cavalieri è anche autore insieme a Francesco Marrella di una puntuale biografia di Adelchi Serena, gerarca fascista, podestà dell’Aquila, ministro in uno dei governi Mussolini, e per un breve periodo segretario del partito nazionale fascista.

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