«Qui tuteliamo la storia e la memoria» 

Parla la direttrice dell’Archivio di Stato: «Presto la nostra sede tornerà in città»

Daniela Nardecchia dirige l’Archivio di Stato dell’Aquila (con le sezioni staccate di Sulmona e Avezzano) dal 2015. Ha 64 anni, è sposata con il dottor Massimo Galassi, medico legale dell’Asl, ha tre figli. Tocca a lei oggi presidiare il luogo dove si conservano le testimonianze della città e del suo territorio. L’archivio è temporaneamente localizzato in un moderno edificio industriale nel nucleo industriale di Bazzano.
Dottoressa Nardecchia, oggi lei è responsabile dei documenti che riguardano la sua città. Lei è aquilana doc.
«La mia famiglia aveva casa a San Sisto, ma il negozio di frutta dei miei genitori, Tullio e Ines, era in via Marrelli. Mia nonna abitava in piazza Duomo, quindi l’infanzia e l’adolescenza l’ho vissuta nel centro storico, da lì è nato un amore per la città che non è mai venuto meno».
Da quando lavora all’Archivio di Stato? E quale è stato il suo percorso di studi?
«Sono entrata nel 1979 subito dopo la laurea in materie letterarie. Avevo frequentato le Magistrali. Anche mia madre – che ci ha lasciato quattro anni fa – era maestra, poi abbandonò l’insegnamento per gestire il negozio con papà, che è morto prematuramente a causa di una neoplasia. Mi iscrissi all’università, Materie letterarie, indirizzo storico, dove trovai ottimi docenti. Potrei citare Emerico Giachery per l’italiano, Giuseppe Soraci e Anna Maria Coletti per il latino, Alessandro Clementi per la storia medievale, Umberto Dante per la storia moderna e tanti altri. Devo molto soprattutto al professor Clementi (recentemente scomparso, ndr) anche se all’inizio le cose non erano andate bene».
Cosa era successo?
«Clementi era molto rigoroso. L’esame di storia medioevale con lui non era una passeggiata. Mi ero preparata bene, ma su una risposta evidentemente non convinsi molto il professore che mi diede 19. Io che fino ad allora avevo quasi tutti 30, molti anche con lode, rifiutai il voto. Lui non gradì quel mio rifiuto. Lo rifeci, andò bene, ma dovetti sudare sette camicie».
Ora però ci dica cosa accadde in seguito.
«Il professor Umberto Dante mi diede da fare una tesi sul brigantaggio preunitario, quindi un periodo a cavallo fra il 1700 e il 1800 e da quel momento cominciai a frequentare l’Archivio di Stato. Leggere, studiare, collegare fra loro gli antichi documenti all’inizio non fu facile, mi aiutò il dottor Salvatore Piacentino, ex direttore dell’archivio che ricordo con molto affetto e ammirazione; poi però capii che quel mondo fatto di carte che ci parlavano della città, dei suoi abitanti – e non solo – di secoli fa, mi era congeniale. Più tardi mi specializzai in Storia moderna all’Università di Urbino e in paleografia latina e diplomatica a Roma».
Ma Clementi cosa c’entra in questo?
«Innanzitutto fu il controrelatore della mia tesi che apprezzò moltissimo. Poi quelli erano gli anni della legge 285 e lui suggerì a me, e ad altre studentesse che si erano laureate in quel periodo in storia medievale con lui, di costituire una cooperativa che ci consigliò di chiamare, cosa che facemmo, Biblos. Mettemmo su, sempre grazie al professor Clementi, due gruppi di lavoro. Uno doveva occuparsi dei catasti antichi dell’Archivio Civico Aquilano e un altro – quello a cui partecipai io – della documentazione del fondo del Preside di Abruzzo Ultra Secondo, figura questa alla quale competeva di presiedere il tribunale della Regia Udienza, pur essendo contemporaneamente e principalmente il governatore politico-militare della provincia che poi con i francesi, nel 1806, divenne Intendente e oggi potremmo assimilarlo al prefetto».
Come foste accolti, voi giovani ricercatori dai “vecchi” dell’Archivio di Stato?
«Devo dire che all’inizio, comprensibilmente, ci guardarono con un po’ di diffidenza. L’Archivio era un po’ un luogo “mitico”, lontano dalla quotidianità, che metteva quasi timore, frequentato solo da persone con un certo spessore culturale. Bastò qualche mese che le cose migliorarono e la nostra presenza e il nostro contributo cominciarono a essere apprezzati».
Ricorda chi frequentava più spesso l’Archivio?
«Molti religiosi certamente, ne cito alcuni ma l’elenco anche qui sarebbe lungo: don Mario Morelli, padre Tarcisio Mannetti, padre Graziano Basciani, padre Giacinto Marinangeli, e poi ricercatori e storici tra cui naturalmente il professor Clementi, il professor Dante e il professor Raffaele Colapietra che mi colpì particolarmente».
Come mai?
«Il professor Colapietra non ha certo bisogno delle mie parole di elogio. Però questa cosa l’ho toccata con mano: lui veniva in archivio ogni giorno per consultare gli atti di tutti i notai aquilani – e le assicuro che sono tantissimi – ricostruendo la storia della città in ogni suo dettaglio. Sono particolarmente affezionata a un testo in cui Colapietra ci descrive le passeggiate di Anton Ludovico Antinori – storico del 1700 grazie al quale si sono conservate molte memorie cittadine – alla scoperta dei palazzi, delle chiese e dei luoghi dell’Aquila. Un capolavoro che contiene, in particolare nelle note, una miriade di richiami agli atti notarili conservati nel nostro Istituto. Un testo irrinunciabile per chi vuole avviare una ricerca in archivio».
Nel 2009 il terremoto anche per l’Archivio di Stato è uno spartiacque.
«Sì, e per più di un motivo. Il primo è che nella notte del sei aprile abbiamo perso una carissima amica e collega, Gianna Lippi a cui io ero particolarmente legata. Lavoravamo nella stessa stanza da sempre, insieme abbiamo condotto e pubblicato molte ricerche: dall’Arte della Lana a Margherita d’Austria, dal brigantaggio all’inventario del processo del Vajont. È stata un’enorme perdita. E poi la sede è stata gravemente danneggiata, impraticabile, il che ha reso necessario trovare quantomeno una sistemazione provvisoria qui a Bazzano, cosa che è stato possibile realizzare già a partire da luglio. Quella distruzione però ci ha dato la spinta affinché l’Archivio, la memoria storica della città, fosse subito riaperto».
Cosa ci può raccontare di quei mesi?
«Devo dire che l’allora direttore generale per gli archivi, dottor Luciano Scala ci diede una grande mano sia in termini economici che organizzativi. E poi l’impegno del dirigente dottor Ferruccio Ferruzzi, del dottor Paolo Muzi e di tutto il personale dell’Archivio. Ricordo che per giorni e giorni sono stata nella sede di piazza della Prefettura con il previsto caschetto, con i vigili del fuoco e con la ditta specializzata di Bologna che si occupava del trasferimento e messa in sicurezza della documentazione. Nel luglio 2009 fummo in condizione di riaprire. Un miracolo a pensarci anche adesso».
In questi anni post-sisma l’archivio si è arricchito di nuovi documenti?
«Molte amministrazioni hanno versato o depositato i propri atti; abbiamo acquisito gli archivi del palazzo di giustizia dell’Aquila che hanno corso grossi rischi di dispersione a causa del sisma. L’ultimo ingresso in ordine di tempo ha riguardato le carte del Genio civile che risultano preziosissime soprattutto in questi anni di ricostruzione della città».
Entro due o tre anni l’Archivio riuscirà a tornare in centro storico?
«Sì, ormai questa è da considerare, allo stato dei fatti, una certezza. Torneremo in una sede prestigiosa, nel complesso di San Bernardino ex caserma De Amicis, in locali ampi che verranno ristrutturati in base alle esigenze dell’Archivio».
L’Archivio ha documenti preziosissimi e fra questi alcuni che sono fondamentali anche per la storia contemporanea».
«Abbiamo ad esempio la documentazione relativa al processo penale del Vajont; io e la dottoressa Lippi abbiamo provveduto alla stesura e pubblicazione di un inventario analitico di tutta la documentazione. Questa documentazione si trova, legittimamente, all’Aquila poiché il processo penale del disastro del Vajont si tenne nel tribunale dell’Aquila dove era stato trasferito, con ordinanza della Corte di Cassazione, dopo la fase istruttoria, per motivi di legittima suspicione connessa a ragioni di ordine pubblico. Subito dopo il sisma gli atti sono stati trasferiti temporaneamente all’archivio di Stato di Belluno per essere digitalizzati; alla fine dell’anno torneranno da noi. Avendo avuto contatti con autorità, storici, cittadini mi sono resa conto di quanto quella catastrofe sia ancora viva nei cuori e nelle menti di chi sopravvisse e dei loro figli e nipoti. Ci sono eventi, come il Vajont, il terremoto dell’Aquila e tante altre tragedie del passato che sono un crocevia che segnano per sempre la storia dei territori colpiti. E il nostro compito è quello di conservare e valorizzare il patrimonio culturale della memoria storica e permettere a tutti di continuare a riflettere e a tenere vivo il ricordo del passato affinché anche in futuro nessuno dimentichi».
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