Ricciuti: quella notte mi procurai due fucili

L’allora consigliere regionale: fui costretto a fuggire a Perugia

L’AQUILA. È un testimone di quei tre giorni di fuoco, combattuti nei vicoli del centro, e conosciuti come “I moti aquilani”. Romeo Ricciuti, 86 anni, esponente di spicco dell’allora Dc e più volte sottosegretario di Stato, all’epoca ricopriva la carica di consigliere regionale.

Che aria si respirava in Regione?

«Il problema del capoluogo condizionò l’attività politica abruzzese per tutto l’inizio dell’attività della Regione. La questione era così importante che durante la campagna elettorale, ma già prima, era il tema principale di discussione tra le forze politiche. La Dc era il partito di maggioranza con 20 consiglieri su quaranta, e a sua volta era divisa in due correnti, quella dei “gaspariani” e quella dei “nataliani”. I primi erano 12, i “nataliani” 8. Fu un grande problema già scegliere la sede della prima riunione del Consiglio regionale all’inizio dell’estate del 1970. Si optò per una sede neutra, un albergo di Popoli».

A parte le correnti democristiane, gli altri partiti come affrontarono la questione?

«Il Partito comunista italiano, con 10 consiglieri, aveva già fatto la sua scelta a favore di Pescara capoluogo, così affermano i più informati. Non avevano tenuto conto della reazione della base del Pci aquilano. Furono giorni di intense trattative con proposte, le più incredibili, da parte di tutti. Lorenzo Natali difendeva a spada tratta le ragioni dell’Aquila e aveva ottenuto il consenso di tutti gli otto consiglieri regionali di “minoranza”, tra i quali il sottoscritto, Luciano Fabiani, Emilio Mattucci. I nostri tentativi, parlo di quelli di Fabiani e miei, durarono fino al momento del voto. Provammo anche a convincere la parte comunista. Il segretario regionale e Gigetto Sandirocco, esponente di spicco del partito, ci dissero che avrebbero voluto vederci correre scalzi per il corso dell’Aquila inseguiti da una folla inferocita. Furono buoni profeti. Il compromesso finale raggiunto con grande difficoltà fu quello di assegnare all’Aquila il capoluogo, la sede della Regione, quindi del Consiglio regionale e tre assessorati fondamentali tra i quali bilancio, finanze e programmazione. Già durante il voto, nell’aula volarono insulti, monetine e qualche bottiglia di acqua minerale, tanto che per tornare a casa fummo costretti ad accettare la scorta della polizia e dei carabinieri. Il capo di gabinetto del questore venne personalmente a casa mia a rassicurarmi dicendo che c’erano forze sufficienti per garantire la nostra incolumità e quella delle nostre famiglie. Fu una notte tremenda, con telefonate di minaccia, compresa quella di sterminare la mia famiglia. Per Fabiani fu ancora peggio perché i più facinorosi gli bruciarono la casa. Alle cinque del mattino seguente, lo stesso capo di gabinetto si ripresentò a casa mia preoccupatissimo e mi invitò a lasciare L’Aquila d’urgenza. In preda a una grande preoccupazione raccolsi due fucili da caccia e una pistola per tentare di fare coraggio a mia moglie e ai miei bambini. Trovai un giovane valoroso, Tonino, che mi caricò in macchina. Le vie d’accesso erano tutte chiuse da barricate di fuoco, e io che abitavo in quella che oggi è via Gualtieri d’Ocre, presi il viale di Collemaggio e il circuito, l’unica strada ancora aperta. Proseguii per Pianola, arrivai a Roio e da qui a Ponte San Giovanni. Poi raggiunsi Perugia, ospite della famiglia di mia moglie dove rimasi per circa un mese. Tornato all’Aquila sfidai lo sguardo torvo della gente e anche qualche insulto, ma l’amore per questa città era, è stato ed è grandissimo, tale da non poter essere oscurato da atteggiamenti di quel genere. All’Aquila continuò la rivolta, che fu una delle più importanti registrate nel nostro Paese, si pensi alla casa di Fabiani bruciata, alla sede della Dc data alle fiamme, e soprattutto all’incendio della federazione aquilana del Pci, in via Paganica, avvenimento, questo, che fece tanto scalpore al punto da essere stigmatizzato, a Mosca, da una nota della Tass che bacchettava i comunisti aquilani per non aver difeso con la loro vita la sede del partito. Si dice di molti professionisti, qualificati da sempre come moderati, che parteciparono all’assalto alla federazione anche per andare a recuperare la scheda di adesione al Pci fatta negli Anni ’40. La rivolta fu così violenta che fu inventata una nuova arma della rivoluzione urbana: la fionda aquilana. Si trattava di una calza di nylon con in fondo un sampietrino che veniva lanciato sulle gambe di carabinieri e poliziotti, con un’efficacia sorprendente. Fu minacciato persino di far saltare con dinamite e tritolo la diga di Campotosto. La prefettura, guidata dal prefetto Petriccione, fu il punto di incontro di tutte le forze dello Stato che cercavano un soluzione. Il questore Ortu, un gentiluomo, fece di tutto per non far succedere quello che poi accadde, e perse anche il posto per essersi comportato nella maniera migliore».

La politica come pensò di gestire la crisi?

«Vi erano due correnti di pensiero, quella di Natali, che pensava al domani e non avrebbe voluto calcare la mano contro i rivoltosi, e quella dell’onorevole Nello Mariani, allora sottosegretario agli Interni, che invece voleva premere di più, che fece arrivare migliaia di poliziotti e carabinieri».

Angela Baglioni

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