Sant’Antonio Abate tra fede e leggenda

Domani in tantissime località della provincia dell’Aquila si celebra la festa dedicata al Santo protettore degli animali

Come per le torri e le fortificazioni altomedioevali, sparse su tutto l’antico contado dell’Aquila che comunicavano un tempo tra loro con i sistemi ottici, così i grandi fuochi si lanceranno i messaggi, silenziosi richiami prima di dare battaglia nella notte gelida per eccellenza che annuncia il 17 gennaio. Si alzeranno, lentamente, in sequenza, i fuochi, rischiareranno i borghi nei dintorni dell’Aquila, con i loro barlumi formeranno una catena di “messaggi”, in codice, valicheranno le montagne, si conteranno negli altopiani e nelle conche carsiche, come nel film “Il Signore degli Anelli - Il ritorno del re” pronti, nella contea, a scontrarsi con il Grande Male, il demone che muove le sue falangi per prendere i raccolti, distruggere i paesi, rapinare le cose, straziare uomini e animali in nome delle tenebre e degli abissi. I fuochi vigileranno, arderanno, con la gente intorno al falò, qualcuno resterà a controllare fino all’alba, come vuole l’antica tradizione della notte di Sant’Antonio Abate, la sua notte, che scaccia anche con la fiamma il demone, e pettina ancora questo territorio, da secoli, con pochi gesti cerimoniali. Da Montereale nell’Alta valle dell’Aterno, a quella Peligna; dalla Marsica fin giù a Villavallelonga e nel Parco nazionale d’Abruzzo, un immenso territorio da “difendere”, proteggere con i fuochi purificatori, simboli e messaggeri della luce nella notte di spettri e incubi millenari, che tratteggiano la memoria di una società arcaica, contadina che si contava, sì, aggregata intorno ai propri miti. E dalla stessa brace si traevano gli auspici per il lavoro, gli animali e se non bastava, all’alba, si portava via la cenere del grande falò per spargerla sui campi e nelle stalle come in un antico rito propiziatorio del mondo romano (Publio Virgilio Marone, Georgiche, 36-29 a.C.), oppure veniva conservata come una preziosa reliquia. Pensate a quante diavolerie si scatenano intorno al Sant’Antonio al suo maiale e al falò, quasi indecifrabili per tanta oscenità. Pensate a un coacervo di corpi umani, membra viscide, bocche di rospo corazzate e orecchie che escono da gambe rachitiche, tutto sembra volgere al peggio, la capitolazione della civiltà ma, se si guarda il santo, la sua serenità dentro questo tormento, la sua contemplazione e perché no, anche il suo maiale che con le zampe conserte è accovacciato dall’aria nobile…. entrambi, sembrano ignorare tutto questo, sembrano distanti, persino scrutano l’orizzonte mentre incombe tutta questa materia d’inferno scatenante. E non finisce qui. Il tormento continua. La meditazione del santo, tuttavia, è messa a dura prova dal demonio materializzato in armature, forme antiche dell’incubo, dell’angoscia che l’uomo porta dentro sé: paure ancestrali di antichi retaggi del maligno sovrano, regnante, manifesto. Un diavolo nano regge il messale e fissa il santo e lo assilla, mentre altri escono dalla penombra in una esplosione visionaria, violenta, sanguinaria, prendono la città in fiamme, ma lui l’anacoreta dalla faccia buona e saggia, paziente, continua le sue ascetiche riflessioni, tranquille: la sua forza, inespugnabile agli assalti, anche della lussuria, non possono niente contro il padre del monachesimo, detto “Il Grande” (Qumans, 251 circa-deserto della Tebaide, 17 gennaio 357, morì ultracentenario) . E infatti così si presenta il trittico del dipinto a olio su tavola “Tentazioni di sant’Antonio" di H. Bosch (1453 -1516), il pittore fiammingo che più di tutti ha interpretato l’iconografia del santo contro il male di tutti i tempi. Di terracotta policroma (andata in frantumi con il terremoto del 2009, in attesa di restauro) è invece la scultura attribuita a Saturnino Gatti (XVI sec. Museo nazionale d’Abruzzo, L’Aquila) che in area locale raffigura sant’Antonio Abate, pensieroso, dal fisico corpulento, guarda in basso con una grande barba e il saio monastico di lana grezza. “Dove gli si fa notte” si racconta invece nell’Alto Aterno. Un maialino veniva lasciato libero per i paesi, entrava nelle case: era segno di buon auspicio, una benedizione, come se entrasse il santo nelle abitazioni, una trasfigurazione. Il giorno dopo veniva macellato, le zampe messe all’asta, e la carne offerta alla comunità con il farro, la “quagliata”, le rape rosse, i tagliolini e i fagioli, mentre gli animali, nella ricorrenza di sant’Antonio Abate appunto, venivano ricoperti con nastri rossi, ghirlande e benedetti fuori dalle chiese, mentre ai cavalli e ai buoi veniva tagliato, sulla groppa, il pelo a forma di croce con una forbice, per proteggerli. E infine la “Commedia”, il riso, lo scherno: la satira, derisione affidata ai saltimbanchi improvvisati nei paesi delle rappresentazioni burlesche nell’Aquilano, derivata dalla tradizione giullaresca medioevale e dalla “Legenda Aurea” di Jacopo da Varazze (anno 1260 circa) che liberò la notorietà e la fama di taumaturgo di sant’Antonio Abate. In abili sonetti, strofe recitative, stratagemmi in definitiva per ingannare i diavoli e sottrarre loro alcune anime… i gruppi giravano nelle vie fino a notte fonda, bussavano alle case con un ricchissimo patrimonio di aneddoti, leggende e con un tema, sempre ricorrente, la lotta del santo contro il diavolo. Il borgo diveniva un gran palcoscenico, in un’azione scenica a tutto campo, ma doveva essere bonificato, per l’appunto esorcizzare il male era l’imperativo, il fine, salvaguardare una società chiusa e stretta intorno ai suoi dilemmi agrari e ai suoi idoli.

*docente e scrittore

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