«Sipario ritrovato, tesoro della comunità» 

Errico Centofanti (cofondatore Tsa) narra la storia del reperto risalente al 1820 spuntato fuori dopo anni di oblio

L’AQUILA. Pochi giorni fa la stampa ha dato rilievo alla riscoperta, durante i lavori di restauro del teatro comunale, di un antico fondale. A Errico Centofanti, uno dei fondatori del Tsa, appena “reduce” dal successo del suo spettacolo omaggio alla “Traviata” di Verdi, abbiamo chiesto qualche dettaglio in più.
Intanto di cosa si tratta esattamente?
«Diciamo subito che c’è un malinteso: un fondale lo si fa con una stoffa qualsiasi, del tutto priva di valore. In questo caso, invece, non di fondale si tratta, ma di un sipario “a ghigliottina”. È un prezioso reperto storico, fatto con una speciale tela dipinta che viene mossa dal basso verso l’alto e viceversa, azione dalla quale è nata l’espressione “cala la tela” per indicare un finale di spettacolo. Quel tipo di sipario fu in uso fino a metà Ottocento. Il malinteso dev’essere sorto nel vedere quell’enorme pezzo unico d’oltre cento metri quadri di tela, ben diverso dagli attuali sipari di velluto, le cui due metà si aprono scorrendo come un tendaggio. Il rinvenimento non è un evento fortuito».
Ma il Teatro Comunale non è di fine Ottocento? Come mai si fece ricorso a un tipo di sipario che in quegli anni era ormai fuori moda?
«È un bell’esempio di riuso. Il sipario era stato approntato poco prima del 1820 per un altro teatro: la Sala Olimpica, che stava accanto alla chiesa di Sant’Agostino, nel luogo poi diventato sede della Prefettura. Quando la Sala Olimpica venne demolita, nel 1851, il sipario fu salvato, perché era giustamente venerato come un’autentica opera d’arte».
Una venerazione dovuta a cosa?
«Intanto, aveva un gran valore affettivo, perché quello che vi è dipinto con delicata maestria racconta un antichissimo episodio di storia patria: la vicenda del Libro VII dell’Eneide riguardante i guerrieri di Amiternum che affiancano Turno contro Enea. Soprattutto, però, fu la sfolgorante bellezza della pittura che lo salvò. Era stato dipinto dal boemo Franz Hill, il quale non era uno qualunque: apparteneva alla schiera internazionale di raffinati artisti e artigiani che furono di casa nella corte napoletana per la quale fu autore, tra l’altro, di pregiati affreschi nella Reggia di Caserta, tuttora presenti nella prima anticamera di Murat, nel salotto di Francesco II e nella Sala di Compagnia».
Come ha potuto attraversare indenne i decenni?
«Il fatto è che già prima della distruzione della Sala Olimpica si parlava della necessità di un nuovo teatro. Infatti, il San Salvatore, funzionante fin dal Seicento all’interno dell’ospedale fondato da San Giovanni da Capestrano, poi sede della Scuola De Amicis, risultava non più all’altezza dei tempi. Perciò, il sipario venne ben protetto grazie alla lungimirante intenzione di dotarne la futura sala. Ne passò di tempo, perché, dalla prima pietra posata nel 1857, per inaugurare il Teatro Comunale s’arrivò al 14 maggio del 1873. E il magnifico sipario di Franz Hill apparve in tutto il suo intatto splendore».
Perché solo adesso è stato ritrovato? Dov’era finito?
«Presumibilmente, all’inizio del Novecento venne dismesso, ma non disperso. Lo arrotolarono e lo immagazzinarono in fondo al sottopalco del teatro. Ma si perse ogni memoria della sua esistenza. Fui io a trovarlo nel 1964, quando, diventato il teatro sede del Tsa, ripulimmo il sottopalco e dal ciarpame che lì s’era andato accumulando emerse quel misterioso rotolone. Era sopravvissuto alle due guerre mondiali e ai pesanti ammodernamenti strutturali degli anni Cinquanta. Era sostanzialmente indenne, solo impolverato, un po’ sbiadito e qui e là rosicchiato dai topi. I nostri bravi scenotecnici lo curarono per quel che fu possibile e poi, di nuovo arrotolato, lo sistemarono sotto il primo ballatoio del palcoscenico, per evitare ulteriori assalti dell’umidità e dei roditori».
Dunque l’attuale ritrovamento non è casuale?
«Che il sipario antico ancora esistesse era cosa ben nota. Io ne avevo perso le tracce dopo i nuovi lavori della fine degli anni Ottanta del secolo scorso. È stato l’architetto Ciciotti, che ottimamente dirige per conto del ministero dei Beni culturali l’imponente lavoro di restauro e rifunzionalizzazione post-sisma progettato dall’architetto Fabbri, a riportarlo alla luce dal cassone in cui è rimasto impacchettato negli ultimi tempi. Lo stato di conservazione è peggiorato, ma un accurato restauro può assicurare ancora una lunga vita a questo gioiello della nostra comunità».
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