Suor Benigna, 50 anni di vita per gli “ultimi”

Mezzo secolo nell’ordine del Sacro Cuore ad alleviare le condizioni dei reclusi e dei diseredati

AVEZZANO. Cinquant’anni di vita religiosa: dieci lustri vissuti sotto il segno della solidarietà, della dedizione completa agli altri, gli umili, i diseredati, in una parola, gli ultimi. Suor Benigna Raiola, l’angelo dei detenuti, la religiosa che ha dedicato gran parte della sua esistenza ad alleviare le penose condizioni dei reclusi delle carceri, soprattutto ad Avezzano, ha celebrato i 50 anni della sua consacrazione religiosa con una funzione, tenutasi nella casa circondariale, alla quale hanno partecipato i detenuti del carcere di Avezzano, la madre generale dell’Ordine delle suore del Sacro Cuore e tutte le consorelle. La messa è stata celebrata da don Francesco Tudini.

«Quanti ricordi», si lascia andare suor Benigna riandando indietro con la mente. «Tanti ricordi da quando avevo 12 anni. Era il Ferragosto del 1957 a Salerno. Mi trovavo al mare. Tre ragazze stavano affogando, ero con loro in acqua. Mi sono messa a pregare ad alta voce e loro si sono salvate. È stato il segno della mia chiamata. Per farmi suora ho dovuto affrontare non poche difficoltà compresa la contrarietà del mio babbo. Con la fede ho superato ogni difficoltà. Sono venuta ad Avezzano nel 1959 e vi sono rimasta 5 anni, poi sono entrata in postulato a Roma. Con il noviziato per due anni non ho visto nessuno. Sono diventata suora il 15 settembre del 1966 a Roma, poi sono stata a Manoppello, Napoli, L’Aquila e in Calabria dove ho aperto una casa d’insegnamento a Reggio Calabria per i figli dei boss della ’ndrangheta arrestati».

Tanti i ricordi che affollano la sua mente in tutti questi anni. Suor Benigna è un fiume in piena. Aneddoti allegri, ma tanti tristi che, tuttavia, emanano sempre un grande afflato di umanità. «Un giorno», racconta, «non abbiamo più visto al catechismo una bambina povera. A una settimana dalla prima comunione l’abbiamo rivista e ci ha raccontato che il papà mafioso aveva litigato con la mamma e che per punirla le aveva gettato dell’olio bollente addosso. Ci disse di aver perdonato suo padre, ma di non poter fare la comunione perché nessuno le aveva comprato il vestito. Le facemmo la comunione e le comprammo noi il vestito».

«Il carcere? La mia vita», dice. «Ringrazio chi mi ha permesso di viverlo: Giuseppe Silla, Giovanni Luccitti, gli educatori. E confido nelle qualità umane della nuova direttrice Barbara Lenzini». (d.p.)

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