«Cari politici state per finire fuori strada»

Parla uno dei fondatori dello statuto regionale «In Abruzzo c’è solo la legge sul nudismo»

PESCARA. Alla festa per i 75 anni, preferì elencare agli amici le sciocchezze commesse. Ora che ne ha 84, Marcello Russo, uno dei papà dello statuto regionale e punto di riferimento dell’avvocatura abruzzese, continua a soppesare la vita con le armi della leggerezza e dell’autoironia. Non smette di aggiornarsi e di scrivere pubblicazioni nel suo studio legale a fianco a casa, nel cuore di Francavilla, dove i ritmi quotidiani sono scanditi dalle esigenze dell’amato labrador.

«No, mia moglie non mi chiede mai di riposarmi: sono 55 anni che la affliggo sempre con le stesse cose». Bacchetta politica e magistratura, liberando ricordi sempre vividi.

Qual è stato il suo primo approccio alla politica?

«Io sono sempre stato un avvocato prestato alla politica, quindi ho voluto dare un apporto giuridico all’attività politica, cominciata nel 1960 a Francavilla con un’opposizione alle scelte democristiane dell’epoca di un’edilizia disordinata, estesa e devastante per il territorio. Allora, il Partito socialdemocratico al quale appartenevo aveva 90 voti quando sono entrato in politica; alla prima elezione successiva, ne ottenne 2000».

Quanto era forte la contrapposizione con la Dc?

«Sono stato uno di quelli che ha concorso a fare lo statuto non facendo il copia e incolla degli statuti delle regioni più importanti, ma cercando di dare una caratteristica propria allo statuto regionale: c’era un braccio di ferro con il gasparismo allora dominante, che voleva fare degli assessori piccoli ministri mentre noi volevamo una Regione molto assembleare, con una capacità di scelta di livello molto esteso. Oggi penserei a un altro modello, perché l’assemblearismo è ragione di rallentamento nelle decisioni. Il decisionismo, a esperienza maturata, è uno dei fattori positivi se non diventa autoritarismo».

Quant’è rimasto in politica? «Attivamente dal ’60 all’80, ma tutt’oggi penso politicamente oltre che giuridicamente: investo nell’attività professionale e negli scritti che cerco di fare, modesti ma sempre vissuti e sofferti».

Se qualche anno fa le avessero chiesto di tornare in pista, lo avrebbe fatto?

«Non saprei dove inserirmi perché sono molto liberista, ma anche molto socialista, quindi contradditorio rispetto agli schieramenti odierni che di liberismo non hanno nulla, anche quelli che si proclamano tali, e di socialismo neppure. Dovrei andare per conto mio e difficilmente otterrei il voto di mia moglie»

Nella politica di oggi, allora, non si riconosce più?

«No, non mi ci riconosco, anche se qualche volta cerco in modo noioso di dire ai politici attuali che stanno recitando un ruolo afflittivo sia per loro sia per la collettività, però vedo che fanno orecchie da mercante».

Che cos’è cambiato oggi rispetto alla politica di 50 anni fa?

«Penso che in nessun periodo della storia ci siano stati modi esemplari di fare la politica, come di fare il padre o il marito: dire che noi eravamo bravi, insomma... se abbiamo un po’ di senso dell’humour... io ricordo più le cose comiche del tempo politico che le cose serie. Però oggi siamo in una fase di svolta di carattere mondiale: il dato vero è che i nostri politici continuano a procedere come se fossero in rettilineo, invece stanno in curva e non se ne accorgono. Quindi andranno fuori strada, immagino».

Chi ricorda in modo particolare dei politici dell’epoca, compagni e avversari?

«Fra gli avversari, Gaspari e Natali sono stati due pesi massimi della regione Abruzzo: io ho scritto in prosa e in versi ironicamente tutto quello che c’era da dire di Gaspari, con il quale avevo più diretto contatto. Nella sinistra c’erano personaggi interessanti come Nello Mariani, ma anche persone modeste tipo il senatore Peppino Borrelli che è morto proprio quando si votava la legge finanziaria per far partire le Regioni. Ha voluto essere presente in Senato stando malissimo: è gente che ci ha dato la pelle anche se non era di grande livello intellettuale. Di grande spessore umano era Nello Mariani, un avvocato prestato alla politica. Ha abbandonato l’avvocatura ma era un grande penalista con umanità e dialettica. Più freddo, meno simpatico, era Raffaele Di Primio: però era uno studioso della politica. Non era molto affine al mio modo di vedere le cose perché se nella politica manca l’umanità, si può fare accademia ma non si può essere incisivi nella realtà. Nel partito comunista c’era il senatore D’Angelosante, un grande personaggio, ma anche Massarotti, Sandirocco davano il loro apporto, oppositivo ma anche positivo. E poi Raffaele Delfino e altri consiglieri del Msi: credevano in quello che facevano. All’epoca dicevo ironicamente che quando i partiti politici si spartivano le tangenti, quelli che restavano fuori erano sempre i missini, che erano onestissimi. Ci hanno pensato dopo a recuperare».

C’è un personaggio che le piace oggi?

«Conosco Chiodi al quale riconosco essere molto onesto e avere anche del garbo, ma non ha volontà di incidere realmente nell’innovazione, è molto prudente e non riesce a dare alla Regione quel ruolo nuovo che occorrerebbe se avesse entusiasmo e creatività nella politica. Gli altri politici? Vedo brave persone, ma non grande volontà».

Luciano D’Alfonso?

«D’Alfonso è un Dc classico. Non potendo più fare clientele come gli piacerebbe fare, dotato del rapporto umano e del dinamismo che servono per dare corso alla sua attività clientelare, finge di essere quello è perché ha alle calcagna la magistratura, la quale riesce a non fare governare, ma non governa. Non è come nel regime dei colonnelli in cui i militari prendono il potere e poi governano loro. La magistratura disarciona ma non sa stare sull’arcione e quindi frena i D’Alfonso che sarebbero produttivi nel clientelismo, che lui sa fare molto bene perché clientelismo non significa solo fare pasticci ma anche favorire le attività. Invece, D’Alfonso non può fare nulla perché siamo in un regime sotto vigilanza della magistratura penale. Dovremmo stare sotto la vigilanza della Corte dei conti che invece non recita il suo ruolo: cioè fare un controllo di gestione permanente prevenendo abusi. Ma non lo fa e tutto arriva al giudice penale che riesce solo occasionalmente a impedire e punire, ma non riesce a creare perché non è nelle sue funzioni. Il sistema di controllo amministrativo non funziona, allora interviene il controllo penale che fa più danni tanto è vero che la corruzione anziché diminuire cresce in misura geometrica. Così, dopo avere fatto un buco nella politica, non è in grado di riempirlo».

C’è uno squilibrio oggi tra i due poteri?

«Certamente, perché se oggi la magistratura penale ha il potere di disarcionare i politici, dovrebbe essere in grado di sostituirli: siccome non lo può fare, può solo impedire ma così non ottiene nulla perché la corruzione dilaga. Invece se tutte le magistrature - contabile, amministrativa e penale - funzionassero bene, al penale arriverebbe solo il fatto veramente criminale. La magistratura fa la supplenza a poteri che non funzionano. Sono stato presidente delle Camere penali, ho sempre proposto che anche i magistrati avessero un carico di lavoro da stabilire, con stipendi bassi e premi di produttività maggiori, che dovessero dare conto del lavoro fatto, che cambiassero sede ogni periodo di tempo, cosa che avviene con l’Arma dei carabinieri».

Quanto è distante, oggi, la politica dal cittadino?

«Io infinite volte ho pensato a un progetto di legge per l’artigianato o la pastorizia, ma poi parlando con loro mi si sono accese cento lampadine e ho cambiato idea. Il contatto con il prossimo è possibile, però stiamo attenti, perché il cittadino specie nel momento del bisogno come questo la prima cosa che chiede al politico è il favore, il posto di lavoro al figlio, il contributo. Quindi il contatto troppo diretto produce la facile espansione delle clientele, perché si entra facilmente nel campo dell’abuso d’ufficio. Il politico ha difficoltà a rapportarsi con il singolo cittadino, che ha bisogno di cose minute, immediate. La classe politica dovrebbe saper prendere provvedimenti generali che vadano nell’interesse dei cittadini, quindi non dare i posti di lavoro con la raccomandazione ma creando aziende e redditività per l’imprenditore. Noi non garantiamo il lavoro se non ci sono impresa e un utile investimento del capitale».

Di che cosa dovrebbe occuparsi oggi la Regione?

«Oggi la Regione non ha più compiti legislativi. Tanto è vero che le leggi rilevanti in Abruzzo sono le leggi su come si fanno le leggi, cioè i criteri su come impostarle, e una legge sul nudismo, come se il nudismo fosse una grande attrattiva per il turismo. Cose comiche. La Regione dovrebbe programmare sui problemi di oggi. Prendiamo i tremila dipendenti regionali e duemila provinciali: dire che li vogliamo cacciare perché così risparmiamo è folle, è come una specie di strage degli innocenti. Dobbiamo dare un ruolo a queste persone. Vediamo che crollano le strade, che non ci sono controlli sismici perché non ci sono i funzionari. Ma abbiamo un’infinità di geometri e ingegneri che non vengono utilizzati: facciamoli aggiornare. Non possiamo tenere “accasermato” l’esercito mentre perdiamo la guerra. Abbiamo migliaia di dipendenti in enti in cui ne basterebbero 50 per fare quello che fanno, mentre ci sono compiti da risolvere che non risolviamo. Siamo una fabbrica piena di operai senza materiale su cui si lavori. Cacciare gli operai? No, trovare loro lavoro. L’ho detto ai politici. Mi hanno risposto: “Hai ragione tu, però...”. Però che...?».

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