l'intervista

"Così sono diventato il maestro dei ritratti"

Lorenzo Di Bonaventura racconta la sua carriera lampo: sbeffeggiato agli inizi, ora faccio il docente

PESCARA. «Il tatuatore non è un Dio come sembra dalle trasmissioni di Dmax. Io sono una persona normale: ho 32 anni, sono sposato da 6 e ho un bambino di quasi due anni. Quando chiudo il mio studio a Montesilvano, vado a casa e gioco con mio figlio, poi, quando lui va a dormire, io preparo i disegni per il giorno dopo». Lorenzo Di Bonaventura ha vinto 35 premi negli ultimi due anni per i suoi tatuaggi artistici: Benigni e Troisi, Marylin Monroe, Del Piero. «Io sono la prova vivente che se ti poni degli obiettivi reali e non utopici e se sudi per raggiungerli, poi, ci arrivi. Certo, alla base deve esserci il talento altrimenti non se ne fa niente». Adesso, Di Bonaventura è considerato uno dei massimi esperti di tatuaggi realistici in Italia, ma, ricorda, «cominciare, da Città Sant’Angelo, non è stato facile: tanti mi sbeffeggiavano dicendomi “ma quando te lo trovi un lavoro serio?”. Ora, sono contento del percorso che ho fatto».

Perché ha deciso di fare il docente al corso di formazione per tatuaggi?

«Ho sempre voluto insegnare e indottrinare le nuove leve visto l’abusivismo dilagante nel settore. Per me, che sono un novello del settore visto che tatuo solo da 6 anni e mezzo, essere chiamato a insegnare in un corso del genere che offre la possibilità di lavorare in tutta Italia è un riconoscimento prestigioso che ripaga di tanti sforzi fatti: gli ultimi tre anni li ho passati chiuso nel mio studio e nelle convention in tutta Italia».

La prima cosa che dirà agli studenti?

«Dirò che il corso è un bellissimo percorso che, a livello legale, darà loro la possibilità di aprire uno studio ma la gavetta resta la cosa più importante di tutte perché un lavoro artigianale e artistico non si può insegnare e imparare in 400 ore. Dirò pure che ancora più necessario è il talento: se uno pensa di avere basi artistiche, allora, si può intraprendere questa strada, altrimenti, è meglio lasciar perdere e non spendere neanche i soldi del corso. Dopo le 280 ore di teoria, ci saranno 120 ore di stage negli studi più rinomati d’Abruzzo: è qui che i ragazzi avranno la possibilità di crescere. Per esempio, se io notassi un talento, sarei uno stolto a non offrirgli la possibilità di fare strada».

Perché c’è bisogno di una scuola per tatuatori?

«Il movimento è in crescita, ma diciamo che per 10 tatuatori professionisti ce ne sono 100 abusivi. Ogni giorno, vediamo scandali con cicatrici e croste, addirittura c’è gente che ha rischiato di andare in setticemia per lavori fatti senza sicurezza. Ribadisco che il tatuaggio è invasivo e ci vogliono condizioni igienico-sanitarie ottimali per farlo. Fare tatuaggi non può essere un hobby, anzi, è più di un lavoro: uno stile di vita. Proprio per difenderci dagli abusivi, noi tatuatori professionisti vogliamo costituire un’associazione di categoria: gli abusivi sono un danno per noi, etico e monetario, e per lo Stato che non incamera le tasse e spende per curare chi può farsi del male».

Perché, adesso, c’è così tanta richiesta di tatuaggi?

«Ormai, il tatuaggio ha preso piede nella cultura: da simbolo di personaggi border line, come detenuti e marinai, adesso, è diventato qualcosa di più simile all’arte. Negli ultimi 5 anni, sono nati artisti mostruosi: ora ci sono mezzi e materiali che prima non c’erano e televisione e social network amplificano tutto questo».

Qual è la cosa più difficile?

«Interpretare quello che vuole il cliente: magari uno entra disorientato e butta idee a caso. Il mio compito è far capire al cliente che tra me e lui ci sarà un rapporto indelebile e io voglio che il mio lavoro gli piaccia per sempre».

Qual è il tatuaggio più strano che ha fatto?

«Di strano non c’è niente: il tatuaggio è una cosa talmente personale che nessuno può permettersi di giudicare. Per esempio, farsi Jerry Calà su una gamba può sembrare strano a tanti, mentre potrebbe essere un ricordo importante per chi se lo fa». (p.l.)

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