PESCARAPORTO

«D’Alfonso nell’ufficio di Milia. Quella mattina presto, alle 7.20»

Le analogie con l'inchiesta su Megalò 3. Il sospetto è che le decisioni che contano vengano prese fuori dagli uffici istituzionali

PESCARA. E’ il 12 settembre del 2014: Luciano D’Alfonso entra nello studio dell’avvocato Giuliano Milia. E’ presto: sono le 7,20 del mattino. Alle 8,18 esce, ma non immagina che in piazza Alessandrini, a Pescara, un ispettore e un sovrintendente della squadra mobile sono appostati per seguire i suoi spostamenti. D’Alfonso che va di prima mattina nello studio del suo difensore non è un reato. Ma quella visita è finita in un rapporto di polizia, quello dell’inchiesta sul centro commerciale Megalò 3 che doveva nascere a Chieti, poco distante da Megalò 1, quindi vicino all’argine del fiume Pescara. Un’inchiesta dove l’imprenditore Ennio Perilli, l’ex segretario dell’Autorità di Bacino, Michele Colistro, e il sindaco di Chieti, Umberto Di Primio, sono imputati di corruzione. Ci sono però molte analogie tra quel caso giudiziario e l’inchiesta su Pescaraporto che oggi vede D’Alfonso e Milia indagati insieme a Claudio Ruffini, Guido Dezio e Vittorio Di Biase.

leggi anche: Pescaraporto, D’Alfonso intercettato: "Ruffini, vai da Milia" Il caso giudiziario parte da una telefonata, una minuta e un incontro nello studio del legale-imprenditore. Le decisioni pensate fuori dalle sedi della Regione

La prima presunta analogia è che, in Abruzzo, le decisioni che contano, secondo gli investigatori, verrebbero prese fuori dalle stanze istituzionali. Dalle testimonianze e le intercettazioni telefoniche del caso Pescaraporto emerge infatti l’ipotesi che i contenuti del documento che diede il via libera alla società amministrata da un figlio dell’avvocato di D’Alfonso, per realizzare un albergo e uffici accanto al porto turistico di Pescara, sarebbero stati decisi nell’ufficio in piazza Alessandrini di Giuliano Milia. Facciamo quindi un salto indietro di tre anni, la storia sarebbe identica. «Il pensiero fisso di Perilli», scrisse allora la polizia nel rapporto Megalò 3, «è quello di risolvere il problema delle quote Psda (Piano stralcio difesa alluvioni, ndr). Dal suo punto di vista la soluzione del problema passa dalle mani dell’avvocato Milia e di D’Alfonso». Ma anche oggi, per Pescaraporto, il problema era rappresentato dal Psda. Tre anni fa, per il Megalò 3, l’avvocato di D’Alfonso non era però direttamente interessato come lo è ora attraverso la società di costruzioni. Così, nel 2014, il principe del foro non è stato indagato.

leggi anche: Milia, il principe del foro diventato imprenditore Difensore del governatore Luciano D'Alfonso e costruttore. La polizia indagò su di lui già nel 2015. Ricostruendo la sua galassia societaria. Quasi tutta impegnata nel mattone

Ma nel rapporto di polizia di quella inchiesta si legge un’intercettazione in cui Perilli, che voleva realizzare il Megalò 3 ma doveva superare l’ostacolo delle quote di terreno da innalzare sulla cartografia, afferma: «Io gliela do sopra al tavolo a Giuliano e se succede qualcosa quello (Giuliano) se lo mangia a Luciano». Questa affermazione, captata attraverso una intercettazione ambientale il 10 settembre del 2014, induce la squadra mobile di Pescara, diretta da Pierfrancesco Muriana, che è la stessa squadra che indaga su Pescaraporto, a seguire con attenzione l’evoluzione degli eventi «tenendo conto», si legge nel rapporto, «che Perilli aveva affermato che Milia si era impegnato a incontrare D’Alfonso per parlargli della questione: “Vabbò, mi ha detto, mo vediamo se vernerdì o sabato lo faccio passare di qua”». E il 12 settembre, alle 7,20, D’Alfonso bussa all’ufficio di Milia. (l.c.)