D’Andreamatteo: quando Craxi mi volle candidare

Il sindacalista e politico socialista uscito di scena nel 1994 parla di ieri e di oggi: la prima Repubblica non va santificata, ma si andava tra la gente senza sondaggi

PESCARA. «Sono sempre socialista. Ora può essere in crisi, ma il socialismo tornerà. ’Sta storia che siamo tutti uguali, che non esiste più destra e sinistra. Ma dove?». Piero D’Andreamatteo, 72 anni, all’anagrafe Piergiuseppe per un errore di registrazione («Giuseppe, il nome di mio nonno, doveva essere il secondo nome») è uno dei pezzi della Prima Repubblica spazzato via da Tangentopoli quando aveva appena messo piede in Parlamento, all’apice di una carriera politica trentennale che l’aveva visto giovane segretario provinciale e regionale della Cgil, consigliere regionale e comunale e segretario provinciale del Psi quando il Psi faceva parte del pentapartito e Bettino Craxi divenne anche presidente del Consiglio.

D’Andreamatteo, l’ha conosciuto Craxi?

Certo che sì. La prima volta lo incontrai alla festa dell’Avanti a Manoppello, ero ancora in Cgil.

Che impressione le fece?

Bella. Era uno a cui piaceva discutere, si appassionava.

E l’ultima volta?

Quando mi chiamò per chiedermi di candidarmi. Andai al suo ufficio di via Tomacelli, a Roma. Un ufficio piccolo piccolo, con il tavolino pieno di carte.

La onorò quella richiesta?

Facevo parte del direttivo, me l’aspettavo.

Quanti voti prese?

Ventunomila. La campagna elettorale si faceva incontrando la gente, paese per paese. Eletto o non eletto rimanevi un punto di riferimento.

Che anno era?

Il 1992. Per candidarmi mi dovetti dimettere da assessore regionale sei mesi prima, il 31 dicembre del 1991, anche se poi le elezioni di giugno le anticiparono al 6 aprile.

E poi arrivò Tangentopoli.

Nel 1993. Quando decisero di liquidare la Prima Repubblica e soprattutto i partiti della Prima Repubblica. Ci furono arresti in tutta la giunta regionale, io presi una marea di avvisi di garanzia.

Come andarono a finire quegli avvisi?

Molti bene, molti male.

Come l’ha vissuta?

Molto male. Ma avevo ben chiaro dove saremmo finiti. C’era un’operazione per liquidare l’industria statale e le strutture politiche contrarie alla grande finanza. E magistrati che aspiravano a fare carriera e soldi. Cose che alcuni di loro hanno fatto.

Entrò in Parlamento nel 1992 e ne uscì quando?

Nel 1994, quando Ciampi e Scalfaro decisero che bisognava sciogliere le Camere.

Quindi si ricorda anche il lancio di monetine contro Craxi all’uscita dell’hotel Raphael ad aprile del 1993?

Certo, ero a Roma, Un clima terribile. Ma quelle monetine sono finite tutte sulla testa di chi le lanciò allora.

Dopo l’uscita dal Parlamento che fece?

Politicamente non feci più niente, m’interessai per alcuni amici, qualche consiglio di amministrazione, niente.

Però si ricandidò alle comunali del 2008.

Sì, perché la mia passione era ed è la politica. Con la lista civica Il Timone non raggiunsi il 3 per cento. Non c’era più la base precedente.

Più amici o nemici?

Molti amici, ma un nemico per la pelle no, non c’è stato.

E qualche lite storica?

Non c’erano liti, c’erano dibattiti politici. Le peggiori accuse che ti facevano erano di fare solo l’ordinaria amministrazione e il clientelismo.

E il clientelismo c’era o no?

Non bisogna santificare la Prima Repubblica. Siamo stati ipocriti sui finanziamenti ai partiti, un po’ di clientelismo c’era perché la gente chiedeva e per avere consenso... questo sì. Non eravamo mammole, ma credevamo nei partiti. Ora si ruba per se stessi. E poi dopo si concentra tutto sulla questione dei vitalizi ai politici, che bisogna ridurli. Ma si pensa davvero che così si risolve i problemi della gente? Il pauperismo, questo tagliare di qua e di là senza un disegno, senza un progetto, a cominciare dalla revisione dei trattati europei, sarà la nostra tomba.

Tra chi oggi occupa posti importanti c’è qualcuno che ha iniziato grazie a lei?

Tanti.

Sono riconoscenti?

La riconoscenza non esiste, e non mi sembra neanche giusto chiederla..

Come si è accostato alla politica?

A 19 anni leggevo molto, decisi di iscrivermi alla Federazione socialista. La sede era in via Piave.

Perché il partito socialista?

Sono sempre stato di sinistra, ma acomunista.

Che differenza c’è?

C’è una bella differenza. Sono per un socialismo liberale, non apprezzavo il totalitarismo e le teorie che lo sostenevano, anche in Italia.

Che scuola ha fatto?

Ragioneria, a Pescara. Quando nelle scuole prevaleva la destra. A scuola mia Giulio De Collibus era uno dei protagonisti di quegli scontri. Forse una volta siamo pure venuti alle mani.

È originario di Cepagatti.

Sì sono nato lì, mia madre Silvia, detta Lia era di Cepagatti, mio padre Italo di Torrevecchia, funzionario per il ministero delle Finanze. Lavorava a Chieti, e infatti ho fatto le medie là. Ci trasferimmo a Pescara quando avevo 12 anni, prima sul lungomare Colombo e poi in via Venezia.

Sempre stato così alto?

No anzi, andavo un anno avanti e sono stato sempre molto piccolo rispetto agli altri. Sono cresciuto di colpo nell’estate del terzo superiore.

Chi la ribattezzò lo Smilzo?

Se l’inventò Totò Cerceo, negli anni Settanta. Ero magro magro, alto alto. E un po’ grintoso.

Le piace?

Non mi piaceva, ma me lo sono portato.

La prima candidatura?

1980, consiglio regionale, il presidente era Mattucci.

Aveva 36 anni. Prima che ha fatto?

Quando entrai nel partito, nel 1963, qualcuno che lavorava in Cgil mi propose pressantemente di fare l’ufficio studio in Cgil. Ci entrai a 20 anni e ci restai fino al 1978. A 25 anni ero già segretario generale di Pescara, poi sono stato segretario regionale e quando me ne sono andato dissi no alla carica di segretario nazionale dei Ferrovieri perché sapevo che al congresso del Psi sarei diventato segretario provinciale.

Dopo il 1980?

Nel 1985 mi ricandidai e vinsi come consigliere al Comune e alla Regione.

Chi c’era?

Al Comune il sindaco Casalini, in Regione la Nenna.

Com’era Nenna D’Antonio?

Non l’apprezzavo molto, stile molto democristiano, col tempo dico che era molto meglio di quelli di adesso. I volti nuovi che tirano a campare a suon di spot, senza idee e senza obiettivi.

Anche Casalini era democristiano.

Conosceva benissimo la macchina amministrativa, prendeva tantissimi voti. Molto chiuso all’esterno, ma nel privato era divertente e arguto. Intelligente. Gli piaceva giocare a carte, tressette, scopa. Ma voleva vincere. E barava.

Che cosa deve la città a Casalini?

Una buona amministrazione. Pescara era molto diversa. Intanto era molto colorata, c’erano le aiuole con i fiori per esempio. E poi il nuovo Tribunale, con lui si iniziò a definire anche la stazione ferroviaria.

Che cosa le ha insegnato?

Che le idee devi saperle mettere in pratica. È stato il miglior sindaco di Pescara.

Però ha realizzato anche quartieri dove concentrò decine di famiglie rom, quartieri che oggi hanno la faccia di Rancitelli.

È vero, bisognava sparpagliare, ma lo fece anche a San Donato, a Zanni e questi quartieri si sono ripresi. La vera emergenza a Rancitelli è la droga. Bisognerebbe applicare la legge. Se spacci vai fuori casa.

Quando entrò in Parlamento quali abruzzesi c’erano?

Scarfagna, Melilla, Susi, e poi Gaspari naturalmente. Eravamo tanti, e soprattutto l’Abruzzo contava.

Com’era Gaspari?

Una persona concreta. Lui aveva una visione dell’Abruzzo, sapeva come intervenire. Sapeva stare in mezzo alla gente e riusciva a fare sintesi. Oggi non ci si riesce, e ci si affida ai sondaggi. Anche la sinistra sta prendendo i vizi della destra, vuole governare con i sondaggi. Ma così non si governa nulla. Servono idee nuove e non c’è niente. Guardiamo Pescara, Montesilvano.

A Pescara, qual è la prima cosa che farebbe?

Riconsidererei la normale amministrazione. Pulizia, strade e sicurezza. E poi punterei al rilancio del commercio. Se non riparte, la città muore. E per la sicurezza impiegherei sul territorio i pensionati delle forze dell’ordine.

Come vede il sindaco Alessandrini?

Non è il suo mestiere, e non gli piace nemmeno. Non c’entra niente con questa giunta.

Politicamente in Abruzzo chi vede bene oggi?

Nessuno.

Un giudizio sul presidente della Regione D’Alfonso.

Al Presidente interessano solo le opere pubbliche. Strade e bitume sono la sua passione. L’unica cosa positiva è la strada di comunicazione adriatico- tirreno che vuole fare.

E lei che cosa ha fatto per Pescara? Di che cosa va fiero?

Il Palazzo di Giustizia. L’ho fatto io.

Ci racconti.

Racconto solo quello che si può: negli anni ’80 al Premio Michetti Gaspari mi fece conoscere il presidente della Corte di Cassazione. E gli chiesi perché erano due tre volte che presentavamo il progetto del nuovo tribunale e ce lo bocciavano sempre. Lui mi disse come dovevo fare, tornai a Pescara e facemmo come mi aveva spiegato. E il progetto passò anche con la possibilità della Corte d’Appello. Pure l’università: sta lì in viale Pindaro grazie a noi. Ma pure qui è meglio non dire, diciamo che abbiamo saputo cogliere l’occasione che ci offrirono.

Tornerebbe in politica?

A fare che? Parlano linguaggi diversi, non mi capisco con questi.

Della politica che cosa le manca?

Il confronto. Ho vissuto una vita di confronto e di scontro, erano le idee che ci facevano stare fino alle 2-3 di notte a discutere o a litigare in corso Umberto.

Al prossimo referendum?

Dico no. In Europa c’è una ventata di populismo e reazione terribile, se eliminiamo i contropoteri liberali chi prende la maggioranza... Dopo Renzi può succedere qualunque cosa.

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