Eleganza, armonia, virilità così il Giappone sedusse D’Annunzio

Lezione del presidente dell’Istituto Tostiano Sanvitale all’università di Osaka «Il Poeta riservò al Paese del Sol Levante una palese ammirazione»

Pubblichiamo una sintesi della lezione che il professor Francesco Sanvitale, presidente dell’Istituto Nazionale Tostiano di Ortona, ha tenuto all’Università di Osaka nell'ambito delle iniziative promosse in Giappone per il 150° della nascita di Gabriele d’Annunzio.

di Francesco Sanvitale

«Nel Giappone nei dintorni di Kyoto abiterò un vecchio tempio di legno fra i ciliegi lievi e gli stagni coperti dai fiori del loto e i sorrisi discreti dei bonzi…». Così scriveva d'Annunzio il 21 luglio 1923, e nel maggio del 1900 aveva già scritto: «Un altro Impero…, quello del Sol Levante dà l'esempio inaudito d'una trasformazione che sembra piuttosto una creazione portentosa. E qui l'orgoglio di stirpe trionfano e divorano insaziabilmente. Coloro i quali vinsero il Figlio del Cielo, oggi aspirano a tutte le conquiste».

Parole profetiche perché, dopo aver ricordato la vittoria nella guerra sino-giapponese del 1894-’95, dove un emergente nazione asiatica sconfiggeva il pur decrepito ma ancora forte Impero della Cina, d'Annunzio sembra prevedere l'altra grande affermazione di forza militare per la quale l'esercito nipponico nel 1905 piegherà l'Impero russo. Nella bulimia per i saperi, le conoscenze, le sensazioni, gli amori, l'originalissimo stile di vita, il Poeta riservò al Giappone un'attenzione venata di palese ammirazione che durò per oltre cinquant'anni. Le riportate due citazioni ne compendiano le fasi principali: l'iniziale tradotta nell'attenzione curiosa ed estetizzante verso il Japonisme che contagiò negli ultimi due decenni dell'800 tutto il mondo occidentale. Via via ciò che fu oggetto di minuziose descrizioni d'ogni japoneserie nelle cronache mondane redatte per le varie testate romane o oggetto d'ispirazione per novelle e di echi in alcune pagine di romanzo, divenne un'attenzione politica ed ideologica che andava di pari passo ai veloci cambiamenti della società nipponica e che coincideva nella trasformazione della natura stessa dell'azione e della creatività dannunziana, dalla celebrazione della purezza estetica, a «condottiero del nascente nazionalismo italiano». D'Annunzio non rinuncerà mai alla celebrazione di un Giappone declinato al "femminile", come produttore di oggetti e sensazioni, di suggestivi ornamenti delle donne alla moda dell'aristocrazia e dall'alta borghesia capitolina. Allo stesso tempo ne rafforzò sempre più la visione "maschile", la virilità determinata di una nazione che diveniva artefice dei propri destini, mutando la sua condizione da voluto secolare isolamento in una aggressività imperialista. D'Annunzio, rimproverando all'Italia postunitaria una visione riduttiva e marginale del proprio ruolo nello scacchiere internazionale, gli contrapponeva il Giappone «nazione maschia», che non poneva limiti ai suoi desideri espansionistici. D'Annunzio si caratterizzò per una costante irrequietezza nella ricerca d'ogni possibile sensazione e ispirazione alla sua inesauribile vena creativa, che non circoscrisse soltanto alla letteratura, ma sublimò la sua stessa esistenza in un'opera d'arte. D'altra parte egli afferma con decisione il suo progetto di vita quando scrive: «Io non sono e non voglio essere un poeta mero». Nel 1888 sulle pagine della Tribuna fece meraviglia l'incursione nella proposta politica con una serie di articoli dedicati alla necessità di rinforzare la potenza navale italiana: «L'Italia o sarà una grande potenza navale o non sarà nulla». Il non voler essere un semplice poeta si realizza da questi articoli e si concretizzerà con l'avventura politica iniziata nel 1897, quando viene eletto deputato di Ortona (collegio elettorale di cui faceva parte la natìa Pescara) e diviene protagonista della Grande Guerra, guadagnandosi medaglie al valore e accrescendo la sua popolarità a dismisura, fino al 1919, quando diviene il Comandante nell'impresa di Fiume. Non è un caso che lo accompagni alla conquista dell'irredenta città adriatica un fedele amico giapponese, Harukichi Shimoi, un fine intellettuale e ardente studioso di Dante. Shimoi, nato nella provincia di Fukuoka nel 1883 e appartenente ad un'antica famiglia di samurai, dopo aver conseguito a Tokyo una laurea in anglistica, giunge in Italia e dal Reale Istituto Orientale di Napoli, con la collaborazione di numerosi intellettuali italiani, inizia una sistematica azione per diffondere la conoscenza della poesia giapponese. Ricordato per aver avviato lo studio del karate in Italia partendo da lezioni date agli arditi, corpo nel quale si era arruolato volontario negli ultimi mesi della Prima Guerra Mondiale, e poi ai legionari di Fiume, Shimoi ebbe un ruolo fondamentale per permettere a d'Annunzio di approfondire la cultura giapponese e in particolar modo la poesia. D'Annunzio attraverso le traduzioni dell'amico Shimoi comprende come la poesia del Giappone sia elegante quanto le sue arti decorative. E l'aspetto formale di quel mondo poetico si sposa alla perfezione con lo stile altrettanto decorativo ed estetizzante della poesia dannunziana di gran parte della sua produzione, tanto da cimentarsi con i metri poetici di oùta e haiku, forme caratterizzanti la letteratura nipponica. Gli elementi del primo amore per gli oggetti tanto amati dalle dame romane: ventagli, paraventi, gru in bronzo, cui però annette la vivezza naturale quando le descrive procedere nel cielo «in vol triangolare», le stampe e ogni altro oggetto che celebrasse il superfluo, convivono con l'alta considerazione politica e ideologica che il poeta è andato maturando negli anni. Progetta un viaggio in 20 tappe in aereo per raggiungere l'amato Giappone, ma purtroppo per la scomparsa di Natale Palli, il pilota che lo aveva guidato sui cieli di Vienna, questo resterà un sogno irrealizzato e nella Pasqua del 1919 scrive all'amico Shimoi: «E io pensavo di venire a cercarvi in Tokyo, sorvolando il continente, valicando il Turkestan cinese per Samarcanda e poi per Pekino e per Mukden intraprendendo il mar del Giappone». Di lì a poco rivolgerà i suoi impeti guerreschi verso Fiume. Qui lo raggiungerà Shimoi portandogli una katana, dono dei giapponesi e suggello dell'amicizia tra il poeta e quel popolo. Nell'antica spada dei samurai d'Annunzio coniugherà i due grandi amori: per il Giappone estetico e per il Giappone militare. Resterà il rammarico di un sogno: «nel Giappone, nei dintorni di Kyoto abiterò un vecchio tempio di legno…».