Giuseppe Di Lello e, alle sue spalle, Antonino Caponnetto

"Falcone ci insegnò come battere la mafia"

La testimonianza dell’abruzzese Di Lello, con lui nel pool di Palermo: «Senso dello Stato e lealtà verso le istituzioni, un esempio per tutti»

Ricordo nitidamente quel 23 maggio pomeriggio di venticinque anni or sono. Avevo appena finito di parlare al telefono con Alfredo Morvillo di un processo che avevamo lui come Pm e io come Gip, quando mi chiama mia moglie e mi dice di accendere la televisione perché c’era stata un’esplosione sull’autostrada per l’aeroporto. Dopo qualche ora di confusione e notizie frammentarie tutto si chiarisce: Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta sono morti a causa di una bomba messa in autostrada mentre rientravano a Palermo. La corsa all’ospedale civico, un fugace sguardo nella grande camera frigorifero e poi, pensavo, fine di quella storia che invece doveva avere un seguito di lì a poche settimane con un’altra bomba, questa volta per Paolo Borsellino e la sua scorta.

Tutto era cominciato il 29 luglio 1983, con un’altra esplosione che aveva squassato la città e ucciso il Consigliere istruttore Rocco Chinnici, i carabinieri Bartolotta e Trapassi e il portiere dello stabile Lisacchi. Il Csm aveva subito nominato come suo successore Antonino Caponnetto, un giudice nato in Sicilia ma che aveva lavorato sempre a Firenze. A Palermo, forte dei consigli e dell’esperienza dell’antiterrorismo fatta da altri giudici al nord, Caponnetto decide di dedicare una parte dell’ufficio alla sola lotta alla mafia e affida il compito a quattro di noi (Falcone, Borsellino, Guarnotta e Di Lello) che in quel periodo già avevano una buona esperienza in questo campo. Falcone, tra noi, era senza dubbio il migliore e questa superiorità, questa sua capacità di coordinamento gliela riconoscevamo sinceramente, senza nessun sentimento di invidia. Lui stesso era mosso dalla sola ambizione di fare bene il suo mestiere e ci era riuscito tanto da diventare un maestro indiscusso, con il suo metodo di lavoro ormai seguito dalla stragrande maggioranza dei giudici italiani. Spesso mi chiedono cosa mai fosse questo “metodo Falcone”. Io credo che fosse una grande serietà nelle indagini, volte alla ricerca di prove capaci di resistere in giudizio e portare alla condanna, senza andare dietro a teoremi, a effimere ribalte mediatiche o a richieste di piazza per una giustizia sommaria.

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Se avesse voluto seguire gli “istinti popolari”, avrebbe potuto arrestare mezza classe politica dell’Isola per poi rimanere con un pugno di mosche in mano, ma era un giudice garantista con una ver cultura della prova e faceva inchieste solo per mandare gli imputati con sicurezza davanti ai giudicanti e non per andare in televisione o sui giornali. Nessuna sciatteria e quindi i penetranti controlli bancari e societari, le intercettazioni, il precipitarsi dovunque, in Italia o all’estero, ci fosse stato l’arresto di un mafioso o di un trafficante di droga per cercare connessioni con Cosa nostra (corre in Egitto dove è stato arrestato il teramano Fioravante Palestrini, quello della pubblicità della Plasmon, con una nave carica di eroina), le continue rogatorie internazionali, i costanti contatti con giudici e investigatori di mezzo mondo grazie anche alla credibilità che aveva presso questi ultimi, la stessa credibilità che poi aveva spinto alla decisiva collaborazione molti mafiosi. Il tutto, ovviamente, tenuto insieme dalla regola di una rigorosa difesa del segreto istruttorio. Un esempio. Buscetta si pente e verbalizza con lui per due mesi. La circostanza e gli stessi verbali sono conosciuti da molti all’interno dell’ufficio istruzione, dalle forze di polizia che devono effettuare verifiche, ma nulla trapela all’esterno proprio per non bruciare l’inchiesta: altri tempi, ora basta aprire un giornale qualsiasi per sapere cos’è successo il giorno prima in un qualsiasi ufficio giudiziario o leggere atti e intercettazioni invano secretati. Oggi le nostre di allora ci sembrano prassi scontate, ma la novità stava nel fatto che queste tecniche investigative fino a quel momento non erano mai state messe in campo, che erano iniziate solo con Gaetano Costa e Rocco Chinnici (entrambi uccisi dalla mafia) e poi proseguite e affinate da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e dal pool antimafia guidato da Antonino Caponnetto. Giovanni Falcone aveva un grande senso dello Stato, era un leale uomo delle istituzioni, mai tentato di contestarle o metterle in crisi, anche quando umanamente avrebbe potuto farlo. Era stato bocciato dai suoi nelle elezioni al Csm, probabilmente non sarebbe stato nominato alla guida della superprocura da lui disegnata e voluta, era stato scavalcato da Meli alla guida dell’ufficio istruzione, ma perseverava nel rispetto delle regole. Altro esempio. Meli, convinto della non unitarietà di Cosa nostra, decide di spacchettare la maxinchiesta e inviare i singoli fascicoli ai vari tribunali dell’Isola dove erano stati consumati i singoli delitti, ma non sa dove mettere le mani. Si rivolge allora proprio a Falcone per essere aiutato nell’impresa. Alcuni di noi sono contrarissimi, ma lui decide di aiutarlo perché era il legittimo titolare dell’inchiesta, il nuovo capo al quale si doveva obbedienza! Con il nuovo codice di procedura penale, transita alla procura come aggiunto ma qui gli viene impedito di svolgere quella frenetica attività investigativa cui era abituato. Quindi la decisione di andarsene a Roma al ministero della giustizia retto da Martelli, come direttore generale degli affari penali: una postazione istituzionale da lui ritenuta strategica per la lotta alla mafia. Da qui continua ad organizzare la superprocura e, soprattutto, convince i vertici della Cassazione ad attuare una rotazione nella assegnazione dei processi di mafia: salva così il maxiprocesso con la conferma integrale della sentenza di primo grado e la condanna dei mafiosi, gli ergastoli e le lunghe pene detentive: altro che salito sul carro dei socialisti! Per Totò Riina e la mafia la misura era colma: l’inevitabile sentenza di morte è eseguita il 23 maggio. E’ stata solo la mafia o ci sono state altre “entità” esterne? Da anni giornalisti e magistrati si affannano a ripetere che, forse, potrebbero esserci state ma, senza prove, seguendo il “metodo Falcone” questo resta solo un teorema senza riscontri, utilizzabile solo per polemiche. Certo, ci sono circostanze acclarate, con i soliti “collettori di carte” all’opera, dalla cassaforte del generale Dalla Chiesa trovata vuota, ai computer di Falcone ripuliti, alla agenda di Borsellino scomparsa, alla incredibile mancata perquisizione del covo di Totò Riina e si spera sempre che qualcosa, prima o poi, emerga. Fino ad ora però rimane l’indubbia certezza della responsabilità della mafia che di “ragioni” autonome per uccidere Falcone ne aveva in abbondanza. Da molto tempo circola la tesi di un Falcone sconfitto, isolato e per questo offerto come vittima sacrificale alla Mafia. Le tante sconfitte non avevano intaccato la sua combattività e poi quel termine “isolato” è proprio fuori luogo. Lui, il potente direttore generale degli affari penali, in grado di incidere anche sulla rotazione dei processi in Cassazione, l’inventore della superprocura, legittimato dalla carica e dalla riconosciuta professionalità a utilizzare nella lotta alla mafia tutte le leve nazionali e internazionali, dall’ Fbi in giù, isolato, e da chi, da cosa? Falcone è stato ucciso per tutto quello che aveva fatto e che avrebbe potuto fare, né più, né meno. Oggi, grazie anche all’esempio del suo metodo, ci sono in tutta l’Italia centinaia di processi contro le organizzazioni criminali, i boss delle mafie nostrane sono tutti in carcere: la battaglia continua, ma grazie al sacrificio di Falcone e Borsellino e di tanti altri non è più impari.

*Giudice istruttore del Pool antimafia, collega di Giovanni Falcone