IL CAMPIONE DEL TORINO

Giammarinaro: ai miei tempi solo passioni, un pranzo per stipendio

I ricordi del pescarese Tony Giammarinaro, ultimo testimone del Grande Torino

PESCARA. «Lo sport era solo passione. Si guadagnava poco e si lavorava tanto. Ora lavorano poco e guadagnano tanto». Tony Giammarinaro ha 86 anni, una lucidità che fa invidia a un ventenne e una storia calcistica da pelle d’oca legata a una grande maglia. Quella con il numero 10 di Valentino Mazzola. Un eroe dello sport e un sogno che si infranse, il 4 maggio del 1949, contro la basilica di Superga. Così finì il Grande Torino ma cominciò il mito. Di cui Giammarinaro, che vive a Pescara, è l’ultimo testimone. Chi, meglio di lui, può raccontarci di quando i campioni erano poveri ma belli?
Mister Giammarinaro quanto guadagnava ai suoi tempi?
«Il mio stipendio era di andare a pranzo e cena in un ristorante pagato dalla società. Ero un ragazzo di 17 anni. Di soldi ne ho visti molto pochi. Era un periodo povero, parliamo del 1948. Arrivai a Torino che era il ’47 perché ero stato espulso dalla Tunisia. Io, Claudia e Nicola siamo venuti in Italia come profughi. Claudia è la Cardinale. Io andai a Torino, Nicola Pietrangeli si fermò a Roma...»
E allora cominciò a giocare?
«Sì, giocavo in un campo pieno di sabbia, era in una caserma. Un signore mi chiese: “Vuoi venire alla Juventus?” ed io risposi: “No, alla Juve no, preferisco il Torino”. Infatti, il giorno dopo, mi presentai senza scarpe all’ingresso del campo del Torino, lo storico Filadelfia, che proprio quest’anno sono andato ad inaugurare. Sa, sono rimasto l’unico erede di quella grande squadra».
E quel giorno di settant’anni fa che accadde?
«Ero lì, davanti al cancello, quando entrò Valentino Mazzola, il numero 10. Dissi che dovevo fare la prova con il Torino ma quello dello stadio mi rispose: “Non ha le scarpe, non ha niente, cosa gli diamo?”. Ma Valentino non esitò un solo secondo: “Gli diamo un paio di scarpe mie”. Così feci la prova, mi presero e, da quel giorno, lui mi venne sempre a prendere a casa per portarmi allo stadio. Era un uomo di grande sentimento, eccezionale, mi voleva un bene dell’anima. È davvero difficile oggi trovare un campione come lui che ti dà la possibilità di parlare e crescere».
Perché oggi è così difficile?
«Perché ci sono egoismo, troppo denaro e voglia di fare la bella vita. Lo sport non mi piace più. Io sono nato nella povertà ed ho guadagnato qualche soldo con tanti sacrifici. Sono contento di quello che ho vissuto. Ma se avessi fatto la mia carriera con il denaro che c’è attualmente, oggi avrei centinaia di miliardi. I soldi però non sono tutto perché mi mancherebbe la persona più importante. Mi mancherebbe un Valentino Mazzola. E questo, le assicuro, non ha prezzo».
Ci può raccontare la sua ultima grande emozione?
«Sì, all’inaugurazione del nuovo stadio Filadelfia. Quando sono entrato mi sono messo a piangere. Vede, io ho 86 anni. E non mi posso lamentare della vita che ho fatto. Sono felice anche se il mio primo grande guadagno fu di 5mila lire che portai a casa e ci vivemmo».
E dopo Superga cosa accadde?
«Dopo Superga indossai la maglia numero 10. Una volta un allenatore inglese mi diede l’11 e rinunciai, non giocai. Ho sempre avuto il 10. Facevo il despota ma ero bravo, prendevo sempre i primi premi. Il guadagno più grande della mia carriera? E’ stato a Chieti. Io allenavo l’Avellino quando la buonanima di Guido Angelini mi disse: “Mi devi fare un favore, metti la cifra che vuoi”. Io risposi: “Dottore, alleno in B posso venire a fare la quarta serie...”. Misi una cifra un pochino più alta, convinto che lui rinunciasse. Ma non fu così. Non mi chieda però quanto presi perché oggi farebbe ridere».
Lorenzo Colantonio