«L’Orsa Maggiore il mio gioiellino. Ma quel no al Napoli...»

Il titolare dello storico stabilimento di piazza Duca racconta i 55 anni al mare, da Mariolino Corso a “los petos scalzos”

PESCARA. «Umberto Tozzi? Oddio no, casomai Bjorn Borg se proprio dobbiamo trovare una somiglianza, o Chuck Norris, come mi ha detto qualcuno». Nicola Rabuffo se la ride mentre cerca di mettere in fila i ricordi dei suoi 55 anni vissuti al mare, sulla spiaggia dell’Orsa Maggiore, lo stabilimento fondato da suo padre Costantino, “il maresciallo” com’era conosciuto a piazza Duca, nel 1957, quando sulla Riviera, oltre la rotonda Paolucci, non c’erano che sterpaglie. Per la struttura che oggi conta un campo da calcetto, uno da basket, cinque campi da beach volley, la piscina e una spiaggia che nei fine settimana d’estate arriva a punte di tremila presenze, proprio qualche giorno fa Rabuffo ha ritirato la targa di attività storica del Comune ma, tiene a sottolineare, è stato premiato con la medaglia d’oro per i 50 anni di attività anche dalla Camera di Commercio.

Rabuffo, ma è proprio questo che voleva fare nella vita?

Ho lavorato con i miei genitori da sempre, da quando c’erano solo un casotto di legno e gli ombrelloni. Prima ancora di diventare bagnino, a 18 anni, già da ragazzino stavo al bar, aprivo e chiudevo gli ombrelloni in spiaggia. Ma mi piaceva il calcio.

Pare che fosse anche bravo.

Ero centravanti. Sono stato all’Atletico Pescara, alla Castellamare, ho avuto tra gli allenatori Clemente Prioli, giocavo con Marco Masoni, che oggi non c’è più, ma che giocò anche nel Pescara. Quando avevo 15 anni allo stabilimento venne Mariolino Corso con i dirigenti del Napoli. Mi avevano visionato e volevano prendermi. Rimasero tutto il giorno a parlare con mio padre ma alla fine la sua risposta fu “è l’unico maschio, non si muove da casa”.

È un rimpianto?

Diciamo che ho sempre pensato che avrei potuto provare sapendo di riuscirci, ma è andata bene comunque. È proprio per questa mia passione che ho trasformato lo stabilimento in un una struttura sportiva, con il primo campo da calcetto nel 1989, quando sulla riviera c’era solo quello del Plinius, e il primo torneo di beach volley, quello del Charro, nel 1990.

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A proposito di calcetto, ormai ci sono gruppi storici che da anni giocano lì sempre lo stesso giorno.

Sì. Il più storico è quello dei giornalisti, il sabato, poi c’è il gruppo Barbuscia, il martedì e fino a qualche tempo fa uno fisso era anche il gruppo Fater. Ma qui sono venuti a giocare tutti, anche Galeone, Repetto, Bruno Pace.

E lei non gioca?

Io giocavo in quello che era un torneo famosissimo tra i ragazzi di piazza Duca, il torneo de los petos scalzos. Si giocava vecchi contro giovani, nel pezzo di spiaggia dove poi è stato fatto il campo di calcetto. Io stavo tra i giovani. Tra i vecchi c’era Pino Dolente, scomparso qualche anno fa, il padre di Luigino Marchionne che giocava con me, i fratelli La Spada. Ma erano tempi in cui lo stabilimento diventava il punto di ritrovo per i ragazzi di piazza Duca già da marzo, quando il muretto si riempiva.

Qualche rivalità con gli stabilimenti vicini?

Con il Delfino verde. Ero piccolo, ma mi ricordo che si giocava sempre contro di loro. Eravamo io, Carlo Masci che voleva sempre dominare, e per questo litigavamo di continuo, e anche Nevio Savini, oggi comandante della forestale.

Poi, poco più a nord, c’era il vecchio Marcello, poi Baia Papaya.

Eh sì, lo stabilimento di Fernanda Danioni e di suo fratello. Siamo stati amici d’infanzia ma quando siamo cresciuti Fernanda divenne una delle più belle ragazze, si diceva che da Trieste a Mazara del Vallo aveva... insomma, era la più bella d’Italia. Erano i primi anni Ottanta, sulla spiaggia si sentivano ancora i juke-box.

Anche lei era gettonato, o no?

Ho avuto tantissime fidanzate, insomma, senza esagerare, ma poi ho conosciuto Marina, la invitai alla mia festa di 30 anni e da lì poi ci siamo sposati. Abbiamo due figli di 21 e 24 anni, Nicola e Greta, lui studia Economia del turismo e lei medicina alla Cattolica.

Anche lei come suo padre investe tutto sull’unico maschio?

Io sono il quinto dopo quattro femmine, e poi c’è una sesta sorella nata perché mio padre dopo di me voleva un altro maschio. Papà era uno che mi obbligava ad andare a pesca con lui tutte le sere, d’estate e d’inverno, a mettere le reti con la barca e a ritirarle alle sette del mattino dopo. Ho detto basta a 18 anni, ma il mare resta la mia passione e questa ho seguito. Certo che il sogno è che mio figlio, i miei figli, portino avanti la struttura, ci sono ancora tante cose da fare.

Più di quello che ha fatto?

Mio padre diceva sempre: “sono sicuro che quando muoio trasformi tutto, ma finchè ci sono io non si tocca niente”. Era della vecchia generazione, gli piaceva fare tutto da solo, e quando è morto ho davvero cambiato tutto ma il rimpianto è proprio che non abbia potuto vedere quello che ho fatto. Oggi a mio figlio dico che se vorrà c’è ancora tanto da cambiare e da innovare.

Parliamo della spiaggia: le fisse dei clienti.

Ci vorrebbe un libro. La richiesta più ricorrente è sempre “avete una ciabatta in più?”. Ma di episodi ce ne sono tanti.

Insomma, a parte Mariolino Corso, alla fine è andata bene così.

Lo stabilimento fa parte di me. Una volta discussi con i miei genitori e non andai al mare per una settimana. Ma mi ricordo che mi mancò l’aria. Ecco, al di là dell’aspetto economico, del mare sporco e della legge Bolkestein con cui rischiamo di finire tutti all’asta nel 2020, io lo stabilimento non riuscirei mai a venderlo.

A proposito, con quanti soldi lo comprò suo padre?

Mio padre era maresciallo maggiore della Marina militare, appassionato di mare, e di pesca. Nel 1957 non fece altro che chiedere la concessione e la ottenne, perché all’epoca bastava una domanda. L’Orsa maggiore nacque così, da zero, quando sulla collina dietro, oggi piena zeppa di case, non c’erano costruzioni e alla rotonda Paolucci finiva tutto.

L’ultima domanda. Perché ha chiamato suo figlio Nicola, come lei?

In realtà io mi chiamo Nicolino, come mio nonno.

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