OMICIDIO NERI

La madre di Alessandro: «Con le telecamere avremmo la verità» 

Laura Lamaletto: senza un sistema di videosorveglianza funzionante il Comune si deve sentire complice dei reati

PESCARA. «Le telecamere avrebbero potuto dire tutto. Dal momento in cui è stata ritrovata la macchina di Ale in via Mazzini, meno di 48 ore dopo la sua scomparsa, già si potevano avere delle risposte. Invece no, le telecamere del Comune sono puntate solo sulle targhe. Ma a questo punto il Comune si deve sentire complice dei reati contro la sicurezza dei cittadini, perché non assicura quello che altre città e altre regioni, con la videosorveglianza, garantiscono a tutela delle persone».

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Parole pesanti quelle di Laura Lamaletto che dopo 63 giorni di attesa e speranza per la verità («l’unica cosa che chiedo») sull’omicidio del figlio di 29 anni, ha dovuto sopportare l’ulteriore beffa che nessuna delle tante telecamere presenti in centro (ma rotte o vetuste) ha catturato un solo fotogramma del figlio che il pomeriggio del 5 marzo, poco prima di essere ucciso, ha parcheggiato l’auto in via Mazzini. «Un fotogramma di una 500 rossa parcheggiata in via Mazzini c’è», dice lei, «ma il buio e la pioggia non hanno mai consentito di verificare la targa».
Signora Laura, che conseguenze ha avuto sulle indagini?
Si è perso tempo, perché nel frattempo che le chiavi della macchina non si trovavano, c’era da verificare la testimonianza del pizzaiolo secondo cui la macchina di Ale, ritrovata mercoledì 7 marzo, fino al martedì non c’era. Anche se io non ho mai creduto a questa storia, perché Ale l’ho chiamato lunedì sera due volte, alle 19,53 e alle 19,55 e il suo telefono squillava. Mi avrebbe richiamato, come faceva sempre e come c’eravamo detti quando ci siamo salutati intorno alle 18. Non ha più richiamato perché l’hanno ucciso quella sera. Anche le celle telefoniche agganciano il suo telefono in zona cimitero dalle 19 in poi. Ma non si è perso tempo solo per le telecamere.
A che cosa si riferisce?
Alla lite tra cugini. Se mio fratello e suo figlio si fossero presentati subito a dire quello che hanno detto un mese mezzo dopo, gli inquirenti non avrebbero perso tempo a indagare minuziosamente sulle loro macchine e su tutto il resto. Se mio fratello era dispiaciuto come ha detto qualche giorno fa davanti alle telecamere della “Vita in diretta”, doveva tornare subito ad aiutare gli inquirenti a sgomberare il campo da piste che non portavano a niente. Invece gli investigatori che potevano focalizzarsi sulla ricerca delle chiavi che solo poi sono state ritrovate, cambiando completamente la dinamica dei fatti, sono stati impiegati sulla storia della lite.
Chi ha detto che avevano litigato?
Tutti lo hanno detto.
Avevano litigato davvero?
A luglio dell’anno scorso io incrociai mio nipote con la sua famiglia e il gruppo di lavoro della Cantina a Pescara, lui venne per baciarmi e lo bloccai, dicendo che si dovevano vergognare per quello che avevano fatto alla mia famiglia. Qualche giorno dopo mio nipote mi rincontrò nel bar sotto casa loro, il bar di una mia amica, dicendo che mi voleva salutare, e glielo ridissi, cambia strada quando mi vedi. È ovvio che l’ho raccontato a mio figlio e probabilmente lui gli avrà detto di stare lontano da me. Era mio figlio che poteva avercela con loro, non il contrario.
Perché ce l’ha con la sua famiglia di origine?
Estromettendomi a dicembre del 2015 dall’azienda, hanno ridisegnato il destino della mia famiglia, causando la deflagrazione finita con la morte di Ale.
In che modo?
Dopo quella estromissione, mio marito è tornato al suo lavoro a Firenze, mio figlio Junior non trovando niente è andato in Irlanda con la sua ragazza, di colpo non c’era più niente. Dopo il tradimento della mia famiglia, ma soprattutto di mia madre, perché mio padre stava male e non l’avrebbe mai permesso, sono stata 4 mesi dallo psicologo e poi a giugno 2016 sono finita in ospedale. Stavo malissimo, non camminavo e non parlavo più. La foto di Ale in primo piano, con quegli occhi sorridenti, fu scattata in quei giorni in ospedale. È la faccia di Ale quando mi diceva sempre “mammì a te ci penso io, non ti preoccupare”. A casa con me era rimasto solo lui, un rapporto viscerale, il più silenzioso degli altri tre figli, solo perché con lui non c’era bisogno di parlare. Per lui la famiglia era una cosa importantissima e quando siamo rimasti di colpo senza niente, perché a giugno 2016 hanno smesso di darmi lo stipendio, davanti al mio crollo fisico, per la sua sensibilità Ale si è fatto carico di tutto. Da novembre scorso ci dava 900, mille euro al mese. Io sapevo che non aveva un lavoro impiegatizio, ma sapevo che seguiva le aste e prendeva la disoccupazione della cantina, dove aveva lavorato dai 18 ai 23 anni. Per questo sono convinta che la vera pista è quella dei soldi.
Che idea si è fatta di quella sera di due mesi fa?
Quella sera lui sarebbe tornato a cena, come faceva ogni volta che il padre partiva per Firenze il lunedì. Alle 18 io sono tornata dal supermercato, lui mi ha aperto la porta di casa mentre parlavo al telefono con mio marito, gli ho detto che c’era la spesa da scaricare e lui l’ha portata in casa e sistemata in cucina. Mi ha chiesto se gli avevo preso le tre saponette che mi aveva chiesto e a un certo punto mentre continuavo a parlare al telefono seduta in poltrona, l’ho visto salire in camera. È andato a prendere qualcosa, non so cosa. Ma non la droga che erano venuti a cercare all’inizio i carabinieri. La sua camera la pulivo io, lo so. Poi è uscito, per abbracciarlo ho interrotto la telefonata con mio marito. E Ale se n’è andato.
Chi può sapere che cosa è successo dopo?
Gli amici che ho conosciuto nei giorni successivi al ritrovamento, che sono stati in chiesa, potrebbero aiutare a svelare il segreto della morte di Ale. Qualcuno di loro potrebbe sapere, perché Ale frequentava loro. Capisco che possano avere paura, ma potrebbero mettersi un paio di guanti e scrivere. Le loro mamme potrebbero spingerli a dare un aiuto alla sofferenza.
Chi ha conosciuto Ale lo descrive, tra le altre cose, come un ragazzo intelligente, determinato, attento.
Lo era. Sono convinta che Ale è stato ucciso in macchina, non nella sua, in un’altra, forse in quella trovata accartocciata, non lo so. Non sapeva di andare incontro alla morte. Sono convinta che lui era seduto davanti, perché era un leader, se è andato a quell’appuntamento doveva fare qualcosa e si è messo davanti. Non avrebbe mai dato le spalle a un estraneo. Conosceva chi guidava e anche la persona dietro che l’ha colpito.
Perché l’ha colpito?
Per soldi. Ma penso per sbaglio. L’avrà minacciato con la pistola sul fianco, lo voleva solo spaventare, Ale si sarà girato di scatto ed è partito il colpo dentro la macchina. E a quel punto lo hanno ucciso. È successo tutto vicino, le celle telefoniche del suo telefonino lo danno nella zona del cimitero già verso le 19, Ale doveva andare lì, avrà anche riso fino a qualche minuto prima con quella gente.
Dopo due mesi ci crede ancora alla verità?
Ci credo. La verità verrà trovata, agli investigatori manca ancora qualcosa, ma mi fido di loro. Io mi batterò fino alla fine per la verità di Ale. Non per la giustizia, per la verità. Voglio guardare negli occhi chi l’ha ucciso e chi l’ha tradito. Ma non passerò la vita dietro le scorciatoie della giustizia che cercheranno di prendere i vigliacchi che l’hanno colpito alle spalle. Voglio diventare nonna. E lasciare qualcosa nel ricordo di Ale. Una fondazione, qualcosa per aiutare i bambini che Ale amava tanto.