Lucia Canta la prof che fece grande il basket

Gallerista, candidata sindaco, imprenditrice Dagli istituti Pitagora alla squadra salita in A1

PESCARA. La camicia di raso verde e i pantaloni a riporto dello stesso colore, «perché il verde è la speranza». E poi i cappotti, le giacche e i tailleur maculati, «perché sono una leonessa quando serve».

Lucia Cieri Canta si presentava vestita così in panchina negli anni d’oro del basket femminile pescarese, a cavallo tra gli ’80 e i ’90, quando la sua squadra, la Pitagora basket, in cinque anni passò dal campionato Promozione alla serie A1 approdando in Europa e in Coppa Italia schierando straniere fortissime come la Toller e la Nakic e talenti nostrani arrivati in Nazionale come Malì Pomilio. «Fummo un caso unico»; racconta mostrando la foto accanto a Maria Teresa Ruta durante una delle due trasmissioni della Domenica sportiva in cui la squadra fu ospite, «un caso che diede fastidio a tanti». Eppure Lucia Cieri Canta, originaria di Penne ma da sempre a Pescara dove il papà Francesco Maria è stato funzionario della Camera di Commercio, non si è dedicata solo allo sport. Gallerista d’arte tra le prime a fare le vendite all’asta sulle tv private nei primi anni Settanta, prima donna candidata a sindaco quando nel 1994 la Federcasalinghe la presentò alle amministrative, insegnante di francese nelle scuole di mezza provincia, con il marito Pasquale Canta, ingegnere edile di Napoli capitato per caso a Pescara dove il fratello Peppino era vice questore, ha fondato la scuola Pitagora, la prima scuola parificata del centro sud che oggi, oltre agli istituti di Pescara e Francavilla, ha aggiunto scuole private anche a Lanciano, Chieti, Sulmona, Giulianova e Termoli. Oltre al residence-ristorante Canta, costruito ai Colli Innamorati proprio dal marito Pasquale, scomparso nel 2003 e da cui «la professoressa» in poco più di tre anni ha avuto tre figli: Antonello, oggi 38enne, Mauro, di 36 e Fabrizio, prossimo ai 35.

Ma come ha fatto a fare tutte queste cose?

Scegliendo e cambiando ogni volta. La scuola per esempio. Dopo la laurea in Lingue a Pescara, matricola 854, quando l’università in piazza Primo Maggio aveva appena aperto, iniziai tutta la trafila per entrare nella scuola. Ho insegnato a Rosciano, a Nocciano, un anno anche all’Alberghiero quando stava nell’edificio del Grand hotel vicino alla stazione di Porta Nuova e il preside era il professor D’Incecco, persona squisitissima. Un anno presi una supplenza anche a Farindola, dove mio marito mi accompagnava tutti i giorni, fino a non poterne più. Quando nacque il secondo figlio scelsi di cambiare.

E che cosa ha fatto?

Volevo stare con i miei figli, e allora mi sono inventata un asilo privato L’aprimmo in via Cesare Battisti al primo piano del palazzo davanti al mercato coperto, il D’Annuzio, si chiamava. Una struttura all’avanguardia, con pediatra, psicologo e cuoca, e poi riconosciuto, nel senso che dava punteggio alle insegnanti, dipendeva dal primo circolo. Durò una decina d’anni, il tempo di crescere i miei figli che nel frattempo divennero tre. Fabrizio, il più piccolo, a 5 anni faceva lo spot in televisione, “Fate come me, iscrivetevi all’asilo D’Annunzio”. Prendevamo i bambini dai due anni e mezzo e fummo i primi a dare la possibilità di fargli fare la primina. Poi i figli sono cresciuti e ho ridimensionato l’asilo per dare spazio alla scuola privata. In quel periodo anche mio marito entrò nella scuola, all’Acerbo. A quel punto scelsi di rinunciare definitivamente alla scuola statale, facendo piangere mia madre. Aprii una scuola regolarmente riconosciuta. Fummo i primi, insieme a Vecchioni.

Quanti ragazzi ha recuperato?

Ne ho viste di tutti i colori. Mi ricordo di un papà, che aveva un laboratorio di analisi e aveva iscritto il figlio al Classico. Il ragazzo era bravo, ma fu rimandato e poi bocciato a settembre per una materia. Per un anno non volle fare più niente, alla fine si convinse a riprendere la scuola ma a patto che ci fossero poche materie, e scegliemmo Geometra. Si diplomò e lo persi di vista. Me lo sono ritrovato adulto, una domenica pomeriggio, quando chiamai a casa un medico dell’ospedale per un malore di mio marito e arrivò lui. Un’emozione. Ma ne potrei raccontare tante di storie così. Diversi ex alunni hanno fatto carriere importanti, sono diventati medici e professionisti affermati, ma non voglio fare nomi.

Come si fa?

È questione di metodo, i ragazzi sono intelligenti, basta motivarli. Ai miei insegnanti, quando si lamentano, dico sempre che la mancata attenzione da parte dei ragazzi è un insuccesso degli insegnanti. E poi i genitori: non bisogna riversare sui figli ambizioni e frustrazioni personali.

Lei che ragazza è stata?

Ho fatto il classico. Sono l’unica femmina di tre figli. Con i miei abitavamo in via Poerio, i nostri dirimpettai era la famiglia del giudice Emilio Alessandrini, ma allora un ragazzo. Di un’intelligenza acutissima, aveva qualche anno più di me, ma facevamo lo stesso liceo, si stava alle stesse feste, si usciva insieme anche con Ennio Di Francesco. Lo rividi l’ultima volta quando il bambino (Marco, oggi sindaco ndr) aveva 4-5 anni.

Che anni erano?

Era un bel periodo. A Pescara ci si conosceva tutti. C’era lo struscio su corso Umberto, d’estate si andava al Florida. Ma noi ragazze sempre accompagnate da un parente. Io da mio fratello.

Era molto corteggiata?

Beh, al Florida ero stata selezionata per Miss Cinema, il presentatore era Silvio Noto.

Suo marito, l’ingegnere, come l’ha conosciuto?

Sulla spiaggia del Gabbiano, che poi divenne Guerino. Mi rivide in una sfilata in costumi d’epoca che facemmo sul corso con il gruppo universitario, io avevo l’abito di Scanno. Ci sposammo, nel 1972.

E lo sport?

Nel 1979, con la prima scuola legalmente riconosciuta, in viale Alcyone e poi nell’ex scientifico di viale Tosti a Francavilla e poi in via Rio Sparto a Pescara, facevamo educazione fisica. Nacque una squadra di calcio, decidemmo di iscrivere la squadra Pitagora alla terza categoria e da lì anche con il basket. Mi ricordo che una delle nostre studentesse giocava nel Roseto basket, fu lei a proporre l’iscrizione nel campionato di Promozione. C’erano altre tre quattro ragazze che giocavano con la Yale e abbiamo iniziato. Tra le prime ricordo Nicoletta Mariotti.

Come andò?

Andò che un anno dietro l’altro vincemmo fino ad arrivare in A1. Io sempre in panchina, in tutte le trasferte, che facevamo con il pulmino Mercedes della scuola Pitagora. E da una squadra studentesca siamo diventata una squadra europea. Presi Malì Pomilio dal Vicenza, allora stava anche in Nazionale, andai negli Stati Uniti a prendere le americane. Ma erano le più capricciose.

Perché?

Pretendevano di giocare e di fare quello che volevano. Ma invece no. Io in panchina osservavo tutto. E quando serviva di educarle non le facevo giocare. D’Altronde le pagavo io, perché nel frattempo la squadra era diventata un’azienda nell’azienda, e senza chiedere niente a nessuno. Anzi con il Comune andai in causa, vincendola, perché a metà campionato mi alzò i prezzi del palazzetto quando facevamo pure le Coppe. Ma un’altra causa vinta è quella con una rivista di basket. Scrisse che il basket femminile non doveva sottostare alle mie lune. Lo querelai e vinsi.

L’episodio più emozionante?

Quando riuscii a far ripetere una partita decisiva per la promozione in A1. Avevo chiamato un complesso da 5 milioni per la festa, c’erano le majorettes e l’arbitro ci fece perdere. Il pubblico era infuriato, nessuno ci credeva al ricorso e invece lo vinsi .

Gli allenatori?

Mungo, Porretti, Vecchiati, Novello, Minervini. A tutti è legato un periodo. Con Porretti era bello perché in trasasferta veniva sempre anche la moglie. Lui come allenatore si faceva rispettare ma era equo. Perché intendiamoci: le squadre femminili sono caratteriali, umorali.

Ma perché è finito tutto?

Era diventata una cosa troppo grande, da sola non ce la facevo più.

Che cosa le ha insegnato lo sport?

L’importanza di condividere entusiasmo ed esperienza, ma anche come si dirige: bastone e carota.