Malvestuto: io partigiano mi sento un uomo di pace 

I ricordi dell’ufficiale di Sulmona: le bombe sulla testa e quel bacio a Bologna

SULMONA. Il gonfalone di Sulmona che sfila alla processione del Venerdì santo, con appuntata la medaglia d’argento al valor militare, è l’immagine più recente conservata nella mente di un uomo che una settimana fa ha festeggiato le 98 primavere: «L’ho guardato e una lacrima mi è idealmente scesa sul viso. Lì su quella medaglia c’è anche il nostro sacrificio». Sacrificio, pace, libertà sono le tre parole nel vocabolario del patriota Gilberto Malvestuto, l’uomo che ha lasciato la sua impronta nella leggendaria storia della Brigata Maiella, formazione partigiana che ha contribuito alla liberazione dell’Italia dal nazifascismo.
Il volontario della libertà Malvestuto è l’ultimo ufficiale ancora in vita. «Eravamo 37 graduati, la Brigata Maiella ha fatto epoca, ho dato un piccolo contributo. Venivamo chiamati i Mille di Troilo».
Com’è nata questa leggenda?
«Ero tornato a Sulmona dopo l’Armistizio. Abitavo a Porta Sant’Antonio, via Teofilo Patini numero 10 per la precisione, e il professor Claudio Di Girolamo, carissimo amico, era a capo della banda Conca di Sulmona. Quando la Brigata Maiella del comandante Ettore Troilo stava per arrivare in città, da Monte Coccia, il professore mise un manifesto. Lo rileggo con la mente: cittadini di Sulmona, ragazzi, partiamo, arruoliamoci con la Brigata Maiella che sta lottando per la liberazione dei fratelli del Nord ancora oppressi dalla dittatura nazifascista! Io, Vincenzo Romano, Aldo Di Nino e altri ci demmo appuntamento alla questura di Sulmona alle 8 del giorno successivo. Erano i primi di maggio del ‘44, se non ricordo male, perdonatemi ma a volte la mia mente fallisce. Lando Sciuba, osservando dei ragazzi che passeggiavano spensierati, mi disse: Gilberto, guarda questa massa amorfa, non sa che noi abbiamo deciso di partire volontari per la liberazione del Nord. Al monumento ai caduti ci attendevano due autocarri inglesi, eravamo una trentina, al bivio di Raiano arrivarono altri. Partimmo e diventammo dei banditen. Da lì a Pescara, poi verso Ancona».
Che cosa la spinse ad arruolarsi?
«C’era dentro di me una specie di rivalsa contro l’occupazione tedesca, perché eravamo arrivati al punto che dovevamo stare nascosti in casa. Ogni tanto c’erano rastrellamenti e c’era in voga il detto vann acchiappenn, vann acchiappenn. I giovani catturati venivano portati a Roccaraso per spalare la neve. S’era sparsa la voce della strage di Pietransieri, con bambini trucidati in braccio alle mamme che allattavano. Ho fatto il mio dovere, perché a me piace la libertà: la libertà di coscienza, la libertà di opinione, voglio essere libero sotto ogni aspetto, ma senza uscire fuori dalle righe della legalità e della giustizia, s’intende. E poi avevo un senso di ribellione contro quel tedesco venuto a depredarci. A Sulmona i tedeschi avevano fatto razzìa di tutto, persino i somarelli s’erano acchiappati, le pecore. Basta!».
Ha rischiato la vita?
«Più volte. Ai Crivellari, nella vallata del fiume Senio, comandavo una postazione con le mitragliatrici che dominavano un’intera valle. Al di là c’era la strada da Imola a Faenza e un giorno c’era un funerale. Tutto finto, era una trappola. Pasqualino Laudadio, con il binocolo, s’accorse che trasportavano un cassone con le munizioni. Arrivò una gragnola di bombe sulla testa».
21 aprile 1945. Il vostro storico ingresso a Bologna. Libera senza sparare un colpo.
«La prima cosa che feci fu quella di abbeverarmi a una pozzanghera, tanta era l’arsura. Entrammo dalla via Emilia, lasciandoci alle spalle la Garisenda e la Torre degli asinelli.
Da allora ho amato Bologna, dove ero già stato per il corso da sottufficiale. Bologna è unica, prima di tutto per la gentilezza delle persone, un’ospitalità mai vista in Italia. Quel giorno c’era una folla straordinaria, mi sentivo un pizzico di sale. Mi corse incontro una ragazza tutta truccata che mi abbracciò e mi baciò. Mi stampò un rossetto sulla guancia, lo ricordo come se fosse adesso: grazie tenente, mi disse, e andò via. Quel bacio fu un bacio d’affetto da parte di una donna che in quel momento rappresentava le donne dell’Italia liberata. E quello di Bologna era il riconoscimento a dei giovani che entravano in una città non loro ma che faceva parte della nostra comunità nazionale».
Dopo la Liberazione ci furono anche episodi orribili dei partigiani, con violenze e vendette trasversali?
«È vero, una cosa che disgusta. Anch’io a Sulmona ho avuto gente che quando c’erano i tedeschi andava acchiappenn. Avrei potuto prenderli per il cravattino, ma non l’ho fatto. La pacificazione invocata da Palmiro Togliatti l’ho condivisa, perché se avessimo continuato tutti quanti a mantenere l’odio ci sarebbe stata un’altra guerra. Noi abbiamo combattuto per la pace».
La Liberazione oggi, che cosa rappresenta? C’è qualcuno che vorrebbe abolire la ricorrenza.
«Cretinate, mi perdoni la parola. La Liberazione è un faro che sta lì in alto a illuminare la strada della giustizia, la strada della correttezza, dell’educazione; sta lì a indicare come deve essere composta una collettività, in amicizia, in santa pace e senza odio. Ero un ferroviere, potevo benissimo stare a casa dietro le persiane e aspettare che la guerra passasse. No, ho voluto partecipare perché lo sentivo dentro di me. L’Italia andava liberata».
Pochi giorni fa ha fatto molto discutere la foto del ministro Matteo Salvini con un mitra in mano. Qual è la sua opinione?
«Vorrei vederlo quel signore se si trovasse di fronte a un altro uomo armato. Le armi devono essere bandite. E Sandro Pertini, che ho avuto l’onore di conoscere, lo ha sempre detto: dobbiamo chiudere gli arsenali che sono la fabbrica di mezzi di guerra e portatori di disavventure».
Se potesse fare un testamento alle future generazioni...
«Un messaggio: difendete la libertà a spada tratta, non alimentate odio e studiate. Se uno dà un calcio a ogni sassolino arriviamo a casa con le scarpe rotte. E diffidate di chi ha sempre il broncio. A me piace la collaborazione, anche sul lavoro: tu dai a me una penna per scrivere, io ti do una gomma per cancellare».
L’episodio che le ha fatto più rabbia?
«Quando vidi arrivare la cartolina per il militare. La rivedo: sua maestà Vittorio Emanuele III re d’Italia e imperatore di Etiopia ti ordina di presentarti al distretto militare di Sulmona… ti ordina, ero un oggetto privato di libertà. Quella cartolina è stata il germe che in me ha fatto germogliare la pianta dell’antifascismo. Ti ordina…, la rivedo ancora».
Può tornare il fascismo?
«Io non credo che si possa ripetere. La dittatura priva della libertà e oggi invece c’è troppa emancipazione. Ricordo i bombardamenti, le sirene, con la gente impazzita che correva coi materassi sulla testa, le bombe che cadevano a grappoli. Per quale motivo si deve ripetere questa storia? Non bisogna neanche immaginare una roba simile».
Ha ancora desideri?
«La sera mi prende la malinconia, vorrei che non venisse mai, mi tuffo nei miei pensieri e nei ricordi, mi sembra di essere prigioniero. Ho il desiderio di partire, la valigia è pronta. Voglio riabbracciare tanti compagni. Sono l’ultimissimo ufficiale in vita, mi dispiace che gli altri siano andati.
Quando sarà la mia ora mi dispiacerà solo per i miei figli, ma dall’altra parte c’è mia moglie Leda, mio grande amore, anche lei ha diritto a rivedermi».
Come le piacerebbe essere ricordato?
«Come uno che ha fatto la guerra e che ha sofferto anche per le future generazioni. Non lo dico io, ci sono documenti che lo dimostrano. Ma più di ogni altra cosa mi piacerebbe essere ricordato come Gilberto Malvestuto, uomo di pace».
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