Il comandante provinciale dei carabinieri Marco Riscaldati al centro con Bruno Trotta e Vincenzo Falce (foto G. Lattanzio)

Montesilvano, i clienti fanno arrestare 13 spacciatori

Maxi operazione dei carabinieri: decisiva la collaborazione dei genitori di un 15enne che, per risolvere un debito di 500 euro accumulato con la cocaina, hanno pagato il pusher con il Postepay

MONTESILVANO. È stato un lavoro lungo e meticoloso. I carabinieri hanno fermato uno ad uno i tossicodipendenti e acquisito informazioni sugli spacciatori. E così, un po’ per volta, hanno capito com’era articolata la rete dei pusher, concentrati per lo più nelle case popolari di via Rimini, a Montesilvano, scovandone altri a Cappelle e Collecorvino. E poi li hanno incastrati. Da marzo a settembre 2017 ne hanno individuati 13, tra cui molti volti già noti alle forze dell’ordine e parecchi rom, che ieri sono stati arrestati nel corso di un’operazione, chiamata “Selva oscura”, che è la sintesi di due indagini diverse, andate avanti parallelamente e coordinate rispettivamente dai pm Silvia Santoro e Anna Benigni (i giudici per le indagini preliminari che hanno disposto gli arresti sono Gianluca Sarandrea e Elio Bongrazio).
Tra gli arrestati, che si muovevano in maniera autonoma e indipendente, senza collegamenti tra loro, ci sono anche due fratelli albanesi che si sono stabiliti a Teramo, già finiti in altre operazioni antidroga, e sono Arjan e David Gjini, di 31 e 26 anni, ai quali viene attribuito il ruolo di fornitori, mentre gli altri si occupavano dello spaccio al minuto di cocaina, direttamente al consumatore. E sono Marco Saraniti, 33enne; Giovina Spinelli, 22enne, Pasqualina Spinelli, 24enne; Marlon Castorani, 27enne; Giuliano Spinelli, 31enne; Concetta Russi, 41enne, tutti in carcere. E poi, ai domiciliari, Serafina Morelli, 26enne; Samantha Filippone, 30enne; Pietro Controguerra, 26enne; Bekri Osmani, macedone 33enne; Daniel Spinelli, 27enne. Non c’erano legami tra loro, a parte alcune coppie, spiega il colonnello Marco Riscaldati, comandante provinciale dei carabinieri. «Erano delle piccole cellule autonome, con propri canali di rifornimento e un’attività di spaccio costante e continua».
Tutto è partito dai normali servizi di controllo del territorio da parte delle pattuglie del Nucleo operativo dell’Arma, agli ordini del capitano Vincenzo Falce. Nel momento in cui è emersa l’attività di uno degli spacciatori si è arrivati un po’ per volta a tutti gli altri, «svelando come e quanto lo spaccio sia pervasivo nelle nostre città», aggiunge Riscaldati. E un ruolo importante è stato quello dei clienti, che hanno raccontato dove e quando si rivolgevano agli spacciatori, indirizzando l’attività dei carabinieri. Hanno collaborato anche i genitori di un 15enne che usava droga abitualmente.
Il ragazzino ha accumulato un debito di 500 euro con il suo fornitore e i genitori sono stati costretti a saldare il conto, effettuando dei versamenti sulla Postepay riconducibile a uno degli spacciatori, anche se non intestata direttamente a lui. Poi, quando gli investigatori hanno convocato il minorenne, i suoi genitori hanno consegnato le ricevute dei versamenti, dando un contributo agli accertamenti in corso. Il resto l’hanno fatto le attività di osservazione e di intercettazione, che hanno riguardato anche gli assuntori di droga. E come accade spesso in questi casi gli indagati e i clienti usavano rigorosamente in un linguaggio in codice, al telefono. Anziché parlare di droga, spesso facevano riferimento al cibo. Per cui parlavano di «cibo buono», di «uova» o «pesce fresco» arrivati a destinazione, nella speranza di non essere ascoltati né capiti dalle forze dell’ordine.
A dispetto della famiglia e della casa da seguire le donne avevano un ruolo di primo piano. «Erano completamente inserite in questa attività a dispetto del ménage familiare» e neppure i sei figli piccoli hanno impedito a una delle indagate di occuparsi delle cessioni di stupefacenti che scorrevano in maniera rapida, immediata. Il “lavoro” di spaccio era controllato a distanza dalle vedette (tra loro anche una donna) che erano posizionate in strada – nel caso di via Rimini - a fare da palo, per lanciare l’allarme all’arrivo delle forze dell’ordine e per filtrare i clienti, selezionarli. Un sistema “classico”, adottato di frequente dagli spacciatori, che non è stato sufficiente a sviare i carabinieri.
Tra gli episodi di cui si sono occupati i militari, per quanto riguarda i fratelli Gjini, anche le ritorsioni a cui era esposto chi non pagava la droga: insieme ad altri connazionali, indagati, avrebbero malmenato chi gli doveva dei soldi, anche nei locali pubblici di Montesilvano. E per questo i due, difesi dagli avvocati Nello Di Sabatino e Antonio Valentini, devono rispondere di tentata estorsione.
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