la campagna di russia

Nel quadrivio maledetto caddero mille abruzzesi

Il battaglione L’Aquila si sacrificò con tutta la Julia per coprire la ritirata E venne decimato. Dei 1.432 uomini del reparto solo in 159 si salvarono

ISOLA DEL GRAN SASSO. C'è un posto sperduto in mezzo alla steppa russa, non lontano dal fiume Don, dove tra il 20 dicembre del 1942 e il 17 gennaio del 1943 circa mille alpini del battaglione L’Aquila – quasi tutti abruzzesi – caddero in battaglia, resistendo per settimane agli attacchi delle truppe sovietiche in condizioni disperate. Quel posto si chiama Selenyj Jar e andava difeso perché era un quadrivio. Vi si incrociavano due strade importanti e di lì i russi, che il 17 dicembre avevano sfondato il fronte in più punti, dovevano passare per piombare sulle divisioni italiane in ritirata.

A Nikolajewka, il 26 gennaio 1943, i superstiti della divisione alpina Tridentina affrontarono l'ultima, sanguinosa battaglia per uscire dall'accerchiamento dell'esercito sovietico. E ci riuscirono. Ma la vittoria di Nikolajewka non ci sarebbe mai stata se, un mese prima, la divisione Julia non si fosse dissanguata a Selenyj Jar per rallentare l'avanzata dell'Armata rossa. Tra i reparti della Julia protagonisti di quello scontro c'era il battaglione L'Aquila, che fino a metà dicembre era stato in seconda linea, come reparto d'emergenza, e il 17 fu mandato al quadrivio a coprire la falla quando i russi sfondarono il fronte sul Don e cominciò la ritirata. A Mitrofanowka, il 18 dicembre, la Julia incrociò i resti delle divisioni di fanteria Ravenna e Cosseria che fuggivano verso ovest insieme a migliaia di soldati tedeschi, ungheresi e romeni. «Non finivano più di venire avanti, davano l’idea di un’interminabile mandria», scrive il tenente Egisto Corradi (che nel dopoguerra diventerà un famoso inviato del “Corriere della Sera”) nel suo “La ritirata di Russia”.

Intorno a Selenyj Jar gli alpini della Julia difesero la posizione per settimane contro ogni logica, senza ripari dal freddo (a decine ogni giorno morivano o finivano fuori combattimento per congelamento), senza trincee (per scavare delle buche nella neve usavano gli elmetti come badili), con armi ed equipaggiamento inadeguati, privi di copertura aerea, senza carri armati né cannoni che scalfissero le corazze dei carri sovietici. Fu una mattanza. Degli oltre 1.400 uomini del battaglione L'Aquila quelli che ricevettero l’ordine di ritirarsi il 17 gennaio del 1943 furono 359. La maggior parte fu circondata dai carri armati sovietici e fatta prigioniera il 21 gennaio. Completarono la ritirata a Nikolajewka in 159, che nel caos erano stati separati dagli altri. Tra i tre ufficiali superstiti c'era l'avvocato milanese Peppino Prisco, storico dirigente dell'Inter. Prisco, per decenni, è stato uno dei pochi - con lui l'allora comandante del battaglione L'Aquila, il maggiore piemontese Luigi Boschis - a ricordare il sacrificio degli alpini abruzzesi nella steppa e ad esaltare le loro qualità umane prima ancora che militari.

Tra gli uomini del battaglione L’Aquila, per l’eroica difesa delle posizioni a Selenyj Jar, hanno ricevuto medaglie d’oro alla memoria il tenente Enrico Rebeggiani di Chieti e gli alpini Giuseppe Mazzocca di Farindola e Gino Campomizzi di Castel di Ieri, e la medaglia d’argento alla memoria l’alpino Berardino Della Noce di Penna Sant’Andrea.(d.v.)

©RIPRODUZIONE RISERVATA