intervista alla criminologa 

«Non ha retto il peso e si è tolto la vita» 

L’analisi di Margherita Carlini: la sua ossessione doveva essere fermata prima

PESCARA. «Non ha sopportato il peso di un’azione folle e si è ucciso». Margherita Carlini, criminologa forense, psicologa e volto noto della televisione, ha seguito il caso dell’oncologa uccisa mercoledì scorso davanti all’ospedale di Sant’Omero. Fino all’epilogo: il suicidio dell’assassino, Enrico Di Luca. «Non ce l’ha fatta più oppure potrebbe essere stata una scelta premeditata», quella di togliersi la vita, riflette la criminologa. Di certo l’amore non c’entra. Perché non esiste l’amore malato: «Non si accosta l’amore alla barbarie, l’amore non c’entra con la violenza». E poi quell’arma, una roncola, che sembra il retaggio di una cultura primitiva: «Nei casi di stalking si tenta quasi sempre di devastare la vittima», spiega Carlini, «e si continua a colpirla anche dopo aver raggiunto l’obiettivo della sua morte».
Un’altra donna uccisa che allunga le statistiche sui femminicidi: «Già nel 2012», dice Carlini, «l’Italia era stata richiamata dall’Onu perché era ed è ancora il Paese che detiene il primato dei femminicidi e ci erano state date indicazioni da seguire. Una tra tutte quella di educare i nostri figli al rispetto dell’altro e alla parità di genere. E poi formazione a tutti i livelli perché casi come questo non siano sottovalutati e le donne non siano costrette a presentare denunce su denunce. Bisogna capire che quando una donna presenta una denuncia ha subito già tantissimo».
È un caso di amore malato?
«Queste due parole non stanno bene insieme. E poi, in questo caso, la tipologia di stalker è diversa dalla classica figura dell’ex rifiutato: questo è un caso meno diffuso ma forse ancora più pericoloso perché alla base di una persona che agisce in questo modo, spesso, si riscontra una patologia psichiatrica. E se non si interviene con una diagnosi e con una terapia, allora, non si può fermare l’attività persercutoria».
Un amore a senso unico che diventa letale?
«Il termine più giusto è ossessione. Queste persone con patologie psichiatriche o con difficoltà relazionali, spesso, si convincono di essere innamorate o addirittura di avere una relazione con una persona che hanno conosciuto per caso. Di certo, la disponibilità dell’oncologa dimostrata nel suo lavoro, encomiabile, non è stata letta nel modo giusto».
E poi c’è una misura cautelare decaduta: cosa ne pensa?
«Un controsenso, una contraddizione. Davanti ad archiviazioni o assoluzioni si rinforza il delirio degli stalker perché loro potrebbero pensare che quello che hanno fatto non è affatto un reato o che sono riusciti a farla frana. Nelle donna, invece, si sviluppa un altro sentimento: si perde la fiducia, non ci si sente più tutelate e non si prosegue la battaglia».
Una donna, già vittima di stalking, uccisa con la roncola: c’è un significato nell’uso di un’arma così rudimentale?
«Il più delle volte gli omicidi commessi tra persone che hanno avuto un legame sono caratterizzati dalla devastazione della vittima: tu non mi vuoi e io ti distruggo. In gergo si chiama overkilling: la rabbia legata al gesto fa sì che i colpi inferti superino l’obiettivo raggiunto e si continui a colpire nonostante che la vittima sia inerme».
Si uccide perché non si comprende un rifiuto?
«Togliendo uno scarso 10% di aggressori con patologie psichiatriche, in tutti gli altri casi di violenza di genere c’è sempre un problema culturale e cioè l’incapacità di gestire la frustrazione che proviene da un rifiuto. Quel rifiuto mette in discussione il ruolo sociale dell’uomo forte e tanti non lo accettano».
In una società sempre più moderna, come è possibile?
«La cultura patriarcale influenza ancora la nostra educazione. Basti pensare a una frase che sembra innocua: piangi come una femminuccia. Bisogna partire dall’educazione. Alle donne ricordo il numero antiviolenza 1522: serve a metterle in contatto con i centri antiviolenza più vicini. È un supporto in più e ce n’è tanto bisogno».
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