«Pescara come D’Annunzio città pettegola e bugiarda»

Gianni Santomo, 180 negozi Benetton e l’aereo personale: tutto passa

ALANNO. «Sono sempre abbronzato, sì. E sennò perché mi chiamano bacarozzo?»

Gianni Santomo («Gianni Pio, perché mia madre c’aveva la fisima»), apre la porta della sua residenza di Alanno e la prima cosa che mostra sono i cimeli di D’Annunzio. La giacca da camera, le lettere, le foto l’abito elegante di Melitta De Felice, una delle amanti del Vate e i regali che le faceva. «Qua dentro ci sono i capelli di Mazzini, le aveva regalato anche questi in cambio delle sue prestazioni». Alle porte dei 69 anni che compirà ad aprile, complice una mattinata di riposo dalla tavola da sci, Santomo, tre figli e due nipoti, rifila perle di saggezza tra un aneddoto e un pezzo di storia di Pescara. Il personaggio amato e odiato per eccellenza, tra i primi a viaggiare con l’aereo personale quando nessuno ce l’aveva, che dava del tu a Luciano Benetton dopo aver aperto 180 negozi Benetton in tutto il centro sud, in Svizzera e in Francia, presidente della Sisley pallanuoto (il suo vice era Pilota)quando la squadra di Estiarte e compagni vinse uno dopo l’altro il primo scudetto, la coppa campioni e la super coppa europea alla fine degli anni Ottanta, oggi dice di avere un solo rimpianto: «Essere tornato in Abruzzo. Volevo essere nomade, andare in giro per il mondo: ultimo domicilio sconosciuto».

Ma che c’entra D’Annunzio con Santomo?

È roba che mandai a comprare dall’avvocato Gianluca Di Blasio all’asta di Sotheby per l’inagurazione del palazzetto di Teleria, al posto del bar Lucchi davanti alla stazione vecchia, dopo l’esperienza Benetton. D’Annunzio, era un cocainomane cicisbeo, ma ricercato nell’abbigliamento, scriveva gli slogan pubblicitari della Rinascente, a Pescara non se lo filava nessuno».

E Pescara assomiglia a D’Annunzio?

Tale e quale. Il pescarese è bugiardo, spendaccione, pettegolo, levantino. Gli unici pescaresi autentici sono quelli del borgo dei pescatori.

Lei di dov’è?

Io sono nato in via Malta, vicino a Villa de Riseis, in mezzo ai pescatori. Mia madre Erminia faceva la magliaia, aveva la bancarella al mercato. I pescatori erano tutti clienti suoi. Battellone padre, gli Spina, Bacone. Me li ricordo tutti perché pagavano a rate e mia madre mi mandava ogni settimana a casa loro a ritirare la quota. Poi ci siamo spostati a largo Scurti dove mia madre aprì il primo negozio. Ma eravamo poveri, quattro figli, mio padre cardiopatico che è morto nel ’68. Prima di iniziare a lavorare con Benetton ho fatto tanti lavori. Ma se nasci in una famiglia povera riesci di sicuro, la povertà ti rende competitivo.

Che lavori ha fatto?

Per esempio l’informatore medico scientifico con Vincenzo Marinelli. In pratica facevo lo schiavo di Marinelli: la mattina alle cinque e mezza -sei gli dovevo portare tutti i giornali sportivi, poi quando aveva finito mettevo in macchina i campioni e si partiva.

E alla Benetton come ci è arrivato?

Tramite Pilota. Mia madre tramite lui iniziò a vendere anche i maglioni industriali di Benetton, dopo averli fatti per anni lei a mano. Ho conosciuto così Pilota, che mi ha portato alla Benetton insieme a mio fratello Rino. Poi lui prese tutto l’estero, io liquidai mio fratello e presi tutto il centro sud: diventai il maggior cliente Benetton, con 180 negozi si fatturavano 400 miliardi all’anno.

E si fece l’aereo personale.

L’aereo nacque per un’analisi dei costi: si doveva portare periodicamente il personale a Treviso, un piccolo aereo ci conveniva. Avevo un comandante che aveva fatto le campagne di Libia. Uno serio, che mi insegnò l’uso etico di queste cose. Se si vedono i piani volo non sono mai andato in giro per capriccio. Solo Marinelli riuscì a corrompere il mio comandante con un Rolex da venti milioni, per farsi portare a vedere le partite.

Com’è finita con Benetton?

Con una violenta lite giudiziaria. Ad agosto del ’93 mi costrinse a passare le vacanze con lui a Skorpios dove stava da solo sullo yacht, io dissi che non avevo il mezzo per andare e mandò l’aereo a Pescara a prendermi. Cinque mesi dopo mi portò in Tribunale a Treviso con 5 cause. E pensare che l’intimo Benetton è stata un’idea mia, con un socio bolognese con cui facevo le cinte.

Gliene fu grato Benetton?

I ricchi non sono grati a nessuno.

Lei è ricco?

Se vivi in Italia e subisci 18 verifiche fiscali non puoi essere ricco. Mi hanno iniziato a tartassare quando ho comprato l’aereo. I costi della macchina di grossa cilindrata li potevo scaricare, quelli dell’aereo no. Ma la mazzata me l’ha data l’operazione delle agenzie di scommesse con Cicci Diomede, a Milano me la sono vista con la n’drangheta, e ho lasciato perdere. Ma in tutta l’operazione ci avrò rimesso un milione di euro e sto ancora pagando.

Ha nominato Gino Pilota, com’era?

Un terremoto. Un grande giocatore d’azzardo capace di perdere sei miliardi al casinò, ma anche un grande venditore. Era figlio di un dipendente delle agenzie delle Entrate. Conosceva bene il tedesco sapeva farsi apprezzare, un folle che ha fatto grandi cose. Uno che girava con venti milioni di lire in contanti in tasca, in cerca degli altri giocatori d’azzardo per Pescara.

E li trovava?

A Pescara ogni quartiere aveva le sue bische. In centro si giocava pure al Circolo bridge. E c’era Pasqualino il Lancianese, collettore delle scommesse clandestine, girava con il taccuino a prendere le quote degli studenti universitari.

Ci parli di Eriberto.

È un’amicizia che nasce dal tennis, dai primi campi al Florida, dove si andava a giocare quando c’era il maestro Renato dipendente della biblioteca provinciale. Anche Eriberto veniva a giocare lì prima di avere l’intuizione di fare al posto dell’Albatros, che era un semplice casotto sulla spiaggia, i due campi da tennis che hanno fatto la storia dell’intrattenimento serale pescarese, dove le donne hanno anticipato le scollature e la ribalta prima ancora della Tv. Eriberto era un amico, un imbroglione, uno che sopra a un tris d’assi ha perso 150milioni di lire contro una scala minima.

In città si ricordano ancora le vostre passate con gli sci d’acqua.

Sì a novembre, per farci vedere, facevamo sci d’acqua davanti alla nave di Cascella con la Capitaneria che ci correva dietro perché stavamo troppo vicini alla spiaggia.

Ma chi era più pazzo, lei o Eriberto?

Eriberto. Io ero goliardico, e poi non potevo fare troppe stupidaggini con il lavoro che facevo, perché le banche mi tenevano d’occhio, mettevano le spie. Non ho mai giocato.

Però c’è anche chi si ricorda le racchette che faceva a pezzi sui campi di Eriberto.

È vero, ma durante la settimana accumulavo tanta di quell’ansia e di quella aggressività che o mi prendevo il Prozac o spaccavo le racchette. Che poi erano gratis, le Prince di Benetton, non le pagavo, me le passava Attilio Di Fulvio.

Si ricorda chi le ha dato il soprannome Bacarozzo?

Vittorio Mucciante, quando giocavamo a pallone, ero abbronzato, sporco di sabbia. Ma mi chiamava Scarafaggio. Poi, quando sono diventato potente, per timore l’hanno trasformato in bacarozzo.

Che vuol dire essere potente?

Il potente è uno che quando spara le cazzate nessuno lo contraddice. E quanti leccaculo ho avuto io, che mi adulavano per ogni stupidaggine e dentro piangevo,

Uno scherzo storico.

Gli scherzi che facevamo a Ival Nacucchi, che chiamavamo Ivan. Era il figlio di un ex senatore, ricchissimo, terrorizzato da chi gli voleva spillare i soldi. Un giorno mi chiede se lo accompagno in macchina al cimitero di Chieti alla tomba della madre. Io faccio mettere dietro, nascosto sotto l’accappatoio del tennis, l’avvocato Franco D’Annunzio e durante il viaggio faccio parlare Ivan male di lui fino a quando non esce fuori Franco che gli dice che lo avrebbe querelato e che io gli avrei fatto da testimone. Da crepare.

Perché si è messo nella pallanuoto e non nel calcio?

A calcio ho sempre giocato. Con Cicci Diomede, Bankowski, Andreino Spina, Peppe de Cecco, Pace, il gemello di Bruno, e Valerio Santilli come dirigente della squadra abbiamo fatto diversi campionati con l’Atletico Alanno. In quegli anni ho visto questa casa e ho deciso di trasferirmi qui. Nella pallanuoto invece mi chiamò Gabriele Pomilio, Benetton si convinse a darci 300 milioni di lire all’anno. Facevamo trasferte in aereo con 25 persone. Tanti soldi, ma con lo sport ci si rimette sempre.

Ha una libreria piena di volumi. Legge?

Le prime 15 pagine, le dieci al centro e le ultime venti, il resto sono variabili verbali.

Ha una cabina armadio immensa, con decine di abiti, tremila cravatte e 200 camicie. Che cos’è l’eleganza?

Estetica, fascino, filosofia. Io non ho mai portato Benetton,vestivo solo abiti Caraceni e mi cambiavo la camicia a pranzo e a cena. Ma l’eleganza si vede pure da come cucini, da come apparecchi la tavola.

È di destra o di sinistra?

Sono anarchico nazi faraonico. Non si devono creare steccati, conta solo la dignità tua e la dignità mia.

Quando si è fatto il buco all’orecchio?

Una trentina d’anni fa nelle isole polinesiane. È la perla nera della buena suerte.

Ha viaggiato tanto, che cosa le manca da vedere?

Seimila isole del Pacifico. Ma prima devo tornare in Nuova Zelanda a vedere delle pecore e da un mio amico in Sud Africa. Voglio andare alle Marshall, alle isole Vergini ho conosciuto Briatore quando non poteva tornare in Italia. Alle Marchesi invece mi sono fatto fare il tatuaggio al polpaccio, una razza, l’unico animale con due piselli. Ho sempre viaggiato, da ricco e da povero.

E com’è meglio?

Da povero. Ho dormito nelle case dei pescatori, con loro ho visto partorire i pescecani. Ancora adesso mi compro il generatore di corrente, e con il gps me ne vado nelle capanne.

Un tipo da Isola dei famosi.

Pensi che mi ha chiamato Amici, aveva mandato tutto una mia amica e loro mi hanno chiamato subito, ma non ci siamo messi d’accordo sul compenso. In cambio di un versamento all’asilo di Manoppello andavo a fare il cretino con quelle quattro sclerotiche, armavo ’na commedia...

Di che cosa va orgoglioso?

Ho sempre scelto io.

Ha tre figli da due donne , quante volte si è innamorato?

Mai. L’amore è un patto di sangue nella buona e nella cattiva sorte. Non credo esista.

Un pregio e un difetto.

Il pregio è che sono generoso. Il difetto è che sono troppo generoso.

Pescara, le piace oggi?

È diventata antipatica, brutta, non ci vengo quasi mai, le notizie me le dà “Beautiful”, Gianni Di Cesare. Si vede dalla qualità delle botteghe, dagli arredi, la città è decaduta, è morta la piazza. Prima bastava entrare nella birreria Nastro Azzurro di Ivan Malaspina, il fulcro della vita notturna pescarese, e si respirava subito l’ eleganza, c’erano i mobili in mogano. Anche il commercio è finito, non servono gli assessori o il sindaco per rilanciarlo: il consumatore è diventato grezzo, ci sono i centri commerciali e le ragazze fanno shopping la notte su Internet.

Rifarebbe piazza Salotto?

Ci rimetterei subito il Calice. Ma la piazza la fanno gli abitanti, mica gli architetti. Darei mille euro a chi ha il balcone fiorito più bello. È una forma di cultura. Ma Pescara non ha cultura, non ha identità. La verità è che siamo diventati un paese becero, c’è mafia dappertutto.

Anche a Pescara?

A Pescara i palazzinari hanno corrotto pure le mattonelle a terra. Basta vedere tutte le villette liberty che sono state abbattute. Ci si scorda che gli uomini passano prima delle cose. È sulla certezza della morte che ho costruito la mia vita, anche se ero convinto di essere immortale. Invece oggi sono vecchio, porto cinque by-pass e ho quasi settant’anni. Ma è come se ne ho vissuti 500. Sono come Matusalemme. Per questo voglio vendere tutto, la casa con tutto quello che c’è dentro, cravatte e D’Annunzio compresi, chiavi in mano. Per raggiungere l’ultimo domicilio sconosciuto.

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