Piero Ottone, una vita da giornalista di razza raccontata in “Novanta”

Longanesi pubblica l’autobiografia di un ex direttore che per 66 anni si è chiesto chi sono e dove vanno gli italiani

di Vittorio Emiliani

Piero Ottone cominciò giovanissimo a farsi i ferri del mestiere, in Italia e poi, a soli 24 anni, nella Londra del secondo dopoguerra, dove ebbe inizio la sua lunga stagione di corrispondente. A 90 anni può raccontarne 66 di vita giornalistica fra l'Italia e il mondo, col suo stile sobrio e piacevole, mai sopra le righe. Nella vita come nella scrittura.

In questo "Novanta" (Longanesi), in sole 238 pagine, passa davanti ai nostri occhi una esperienza giornalistica di prim'ordine cominciata di fatto sui banchi di scuola sotto il regime mussoliniano, con una sua lettera di critica severa alle gerarchie genovesi. C'è già in quella lettera acerba la passione civile profonda che il giornalista Ottone dispiegherà negli anni seguenti. Ma con uno stile tutto suo, in cui entrano Genova, la più nordica città d'Italia, e ancor più Londra e il primo soggiorno nella capitale britannica del giovane corrispondente Ottone, mandato colà dalla torinese "Gazzetta del Popolo", all'epoca quotidiano di rilievo. L'Inghilterra sta vivendo «il suo autunno con stile, e anche con grazia», ma è pur sempre un grande Paese, un Impero vastissimo, rispetto a una Italia «paese mezzo industriale, mezzo contadino e piuttosto provinciale».

L'imprinting londinese segnerà la sua esistenza e questo libro così gradevole, sapiente ne è la riprova una settantina di anni più tardi. Piero Ottone, da genovese (quindi già con self-control) diventa anglosassone e tale rimarrà pur passando per lunghi soggiorni nella Germania di Adenauer e nella Unione Sovietica di Krusciov.

I ritorni in Italia lo pongono davanti ad un Paese dove tanti sono gli squilibri e tante le anomalie. Fra queste, per lui di cultura liberale, c'è l'industria pubblica (così debordante nella sua Genova) e soprattutto l'Eni di Enrico Mattei che il quotidiano al quale è approdato, il "Corriere della Sera", attaccherà insistentemente con la pena puntuta di Indro Montanelli. Al quale, per una volta, Mattei replicherà con dovizia di dati consigliandolo di farsi, la prossima, consigliare per i bilanci da un buon ragioniere. Tornato nell'Italia del "miracolo economico", nel 1962, Piero Ottone andrà a vedere cosa succede nelle grandi periferie, nelle "coree" del Nord Milano dove gli immigrati veneti e meridionali si sono ammassati a migliaia. Il "Corriere" non aveva grande dimestichezza con questi temi che il concorrente diretto (il "Giorno" di Italo Pietra) trattava spesso, io ero andato nelle "coree" accompagnandovi, col fotografo Ugo Mulas, Camilla Cederna per "L'Espresso" di Benedetti, nel '59. Piero Ottone porta in via Solferino il gusto delle grandi inchieste dei giornali inglesi. Lui non se ne ricorderà più, ma, qualche anno dopo, ci siamo incontrati più volte nelle inchieste sul porto di Genova. In quell'ambiente ingessato cercava di portare il vento delle liberalizzazioni. Nel 1972 sarebbe stato chiamato proprio lui alla guida del maggior quotidiano genovese, il "Secolo XIX" di proprietà dei Perrone (lo è ancora) e lì un giornalista cresciuto quale corrispondente e inviato estero si rivela un abile e coraggioso direttore. Modernizza a fondo una testata carica di polvere venendo accusato persino di "maoismo" dai ceti più conservatori. Da quell'esperienza utilissima durata un quinquennio torna attrezzato in via Solferino come direttore, in anni terribili per Milano e l'Italia: dal 1972 (dopo Spadolini) al 1977 quando arriveranno Angelo Rizzoli jr e la P2. Ottone fa un giornale aperto, liberal, subito etichettato "di sinistra", tanto da provocare l'uscita di Montanelli e del suo gruppo, andati a fondare il "Giornale". Anni duri, che racconta «con stile e con grazia», come si conviene a chi, navigando a vela, conosce i grandi orizzonti. «Il mio rifugio, la mia salvezza», conclude «è stato l'andar per mare».

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