Pace, genio e sregolatezza: quanti scherzi a Pugliese

«A Bologna gli anni migliori: Bulgarelli trascinatore, Haller bravo ma...»

PESCARA. Sincerità, vivacità e talento. Bruno Pace, oggi 71 anni, personaggio estroverso, racconta senza peli sulla lingua i passi più significativi della sua bella carriera di calciatore e allenatore.

Pace, quando ha iniziato con il calcio?

«Da ragazzino nei campetti. Giocavo spesso, era una mia passione che non prendevo troppo sul serio. Un giorno mi chiamarono alcuni amici, tra cui Edmondo Prosperi e Giuseppe Romoli, per chiedermi se volevo andare a giocare una partita con la “De Martino” del Pescara, la Primavera dell’epoca. Mi presentai a bordo di un Vespa con un sigaro in bocca. Dovevate vedere l’espressione dell’allenatore, Ostavo Mincarelli! Mi diedero un paio di scarpe con numeri diversi, allora decisi di tagliare la punta di quella stretta. Giocai bene e venni ingaggiato dal Pescara».

A 19 anni il passaggio al Bologna.

«Arrivai giovanissimo in una città meravigliosa. Venni aggregato alle giovanili, ma partecipai anche a qualche ritiro con la prima squadra che vinse lo scudetto nel 63-64. Nei due anni successivi andai in prestito prima a Prato, poi a Padova e nel 1966 tornai al Bologna».

Dove tre anni dopo incontrò Oronzo Pugliese.

«In carriera ho fatto dannare parecchi allenatori, lui in particolare. Telefonava per verificare se i calciatori avessero rispettato l’orario di rientro. Alle 22 dovevamo essere a casa e lui puntualmente si faceva sentire. Quando chiamava, a causa del suo inconfondibile accento barese, era un gioco da ragazzi riconoscerlo e metterlo in crisi. Lui diceva: “Buonasera, casa Pece (non Pace, ndc)?” Ed io rispondevo variando il tono: “No, qui è casa Di Giovanni”! Dopo qualche secondo richiamava ed io cambiavo voce dicendo: “Qui è casa Di Giovanni, cosa se le serve?”. Mamma quante risate».

Oppure i suoi blitz nelle vostre abitazioni…

«Per non farci insospettire arrivava a bordo di un’auto di piccola cilindrata di proprietà di un barbiere. Si avvicinava e suonava al campanello. Ma quel barbiere era un mio amico, gli regalavo i biglietti per le partite e lui, quando Pugliese voleva fare i controlli, mi avvertiva in tempo».

I suoi scherzi non risparmiavano nemmeno i compagni di squadra.

«In quel periodo c’era la guerra in Vietnam. Ricordo che un giorno sul ponte di Galliera apparve la scritta “Pace in Vietnam”. Decisi di uscire in piena notte con la bomboletta spray e aggiungere: "Ma anche Pascutti". Quando la vide, Ezio era furibondo, voleva ammazzarmi».

Nel 1972 lasciò il Bologna e la sua carriera proseguì a Palermo.

«Ebbi un’offerta dalla B del Cesena, la principale favorita a vincere il campionato, ma rifiutai e firmai per il Palermo che giocava in A, ma era candidato alla retrocessione. Le previsioni furono azzeccate: i romagnoli conquistarono la promozione, mentre noi finimmo in B».

Poi un altro anno di A a Verona e il ritorno in Abruzzo.

«In Veneto mi allenò Cadè, il tecnico della prima promozione in serie A del Pescara. A fine stagione, dal momento che la mia famiglia aveva acquistato una proprietà dove oggi sorge il Poggio degli Ulivi, decisi di accettare la proposta di Petruzzi e chiusi la carriera nell’Angolana allenata da Patricelli».

Appese le scarpe al chiodo, iniziò a pensare alla carriera di allenatore.

«Sì, frequentai il Supercorso a Coverciano con Sacchi, Agroppi e Zeman. Il boemo era l’unico che non prendeva appunti, lui sapeva già tutto. Dopo l’esame mi arrivò un’offerta della Roma che voleva affidarmi la Primavera. Risposi:“No grazie, vorrei cominciare subito con i grandi”. Così, firmai per il Modena che veniva da due retrocessioni consecutive dalla B alla C2. Vincemmo subito il campionato e il Trofeo Anglo-Italiano, fu una bellissima soddisfazione. In squadra c’erano molti giovani cresciuti in casa, come Franchini, Davoli, Maestroni e soprattutto Cuoghi che poi fu venduto al Milan».

L’anno dopo la serie A, prima a Catanzaro poi a Pisa.

«In Calabria fu un’esperienza indimenticabile. Arrivammo settimi per due stagioni consecutive in serie A stabilendo il migliore piazzamento nella storia del club. Il presidente era Adriano Merlo, friulano, un uomo freddo e distaccato. L’opposto di Romeo Anconetani, vulcanico, autoritario e un po’ cattivello”.

Alla vigilia della quinta giornata, il presidente del Pisa Anconetani disse: Pace è intoccabile. La sua squadra perse e lei venne esonerato. «Quando i dirigenti dicono che un tecnico non è in discussione bisogna preoccuparsi. Anconetani era un tipo istintivo, autoritario e le sue azioni erano spesso caratterizzate dal risentimento».

Nel 1985 tornò a Bologna da allenatore.

«Subentrai a Pietro Santin. Riuscimmo a salvarci, ma avremmo potuto fare in più. Avevo buoni calciatori, come Pino Greco e Domenico Marocchino. Quest’ultimo sentiva troppo le partite. Per scuoterlo un giorno gli dissi che avrebbe giocato Frutti al suo posto, ma non era vero. Ero d’accordo con Frutti che nel riscaldamento fingesse di farsi male. Vincemmo 2-0 contro il Padova con due gol di Marocchino. Un allenatore deve entrare nelle teste dei calciatori».

Il compagno di squadra più forte?

«Bulgarelli era un trascinatore, lui e Perani erano l’anima del Bologna che vinse il campionato nel 1964. Di sicuro erano più determinanti di Helmut Haller che aveva colpi straordinari: un tedesco dai piedi brasiliani che, però, non aveva la personalità del capo. Haller era capace di saltare in dribbling cinque, sei avversari, ma spesso lo faceva quando la squadra era già in vantaggio».

L’avversario più forte?

«Luisito Suarez. In campo si sentiva la sua presenza. Aveva un lancio illuminante di 40-50 metri: a quei tempi il pallone si buttava in avanti per cui la sua era un’arma micidiale. Fu il primo a chiamare i raddoppi delle marcature: quello che oggi è scienza, lui lo faceva in modo naturale».

E il migliore giocatore che ha allenato?

«Edy Bivi. Era giovanissimo e con me fece tanti gol: mi è rimasta impressa la sua abilità di calciare indistintamente con il destro e con il sinistro; inoltre sapeva smarcarsi e colpire di testa con un tempismo straordinario. Poi Massimo Mauro, un vero leader con buona tecnica anche se segnava poco: lo chiamavamo zip, proprio per scandire l’attimo con cui saltava l'uomo liberandosi di due o tre avversari».

Veniamo all’attualità. Tra gli italiani, il suo allenatore preferito?

«Stimo Gianpiero Gasperini, uno capace di coniugare con equilibrio la fase difensiva e quella offensiva. Forse non incarna il tipico personaggio da grande club e per questo all’Inter non ha potuto sfruttare la chance».

Un giudizio sul Pescara?

«I numeri non tradiscono mai. Se dopo 13 gare ha solo 13 punti significa che c’è qualcosa che non funziona. È una squadra senza identità, non si capisce quale sia la formazione base. La rosa è troppo ampia, se vuole invertire la rotta Baroni deve puntare su 16, 17 calciatori. L’abbondanza danneggia anche la qualità degli allenamenti».

E sul Lanciano?

«Non si esalta se le cose vanno bene, non si deprime dopo una sconfitta. Inoltre, la squadra sa cambiare pelle: l’anno scorso aveva un atteggiamento difensivo, ora più propositivo, ma i risultati sono sempre soddisfacenti».

Giovanni Tontodonati

©RIPRODUZIONE RISERVATA