CALCIO

Tony Giammarinaro: io, il Grande Torino e un calcio più umano 

A 85 anni l’ex mezzala granata, pescarese, apre il libro dei ricordi: dall’infanzia fino ai giorni nostri tra curiosità e aneddoti. «Ero un despota, ma in campo e in panchina sapevo il fatto mio Che storie: dal tunnel ad Angelillo ai fasti dell’Avellino di Sibilia»

PESCARA. Tony Giammarinaro è un’enciclopedia vivente del calcio dall’alto dei suoi 85 anni. Spazia dal Grande Torino ai giorni d’oggi con lucidità e brillantezza. Prima mezzala d’attacco (fino al 1966), poi allenatore e oggi arzillo spettatore interessato di un calcio che è diventato business. In cui fa fatica a riconoscersi. Generazioni di calciatori e tecnici gli sono passati davanti agli occhi; Tony è una fucina di retroscena e curiosità, molti dei quali riguardanti il calcio abruzzese
Giammarinaro, che infanzia è stata la sua?
«Mio padre era un fascista, un imprenditore ricco a Tunisi. Ma la rivoluzione ci ha spazzati via. Siamo diventati di colpo poveri. E ci hanno mandato a Torino. In una caserma. Non avevo nemmeno le scarpe».
Come si è avvicinato al calcio?
«Giocavo in caserma. Qualcuno mi ha visto e mi ha proposto un provino. Prima alla Juve e poi al Torino. Alla Juve ho detto no, all’epoca era il Torino la grande squadra».
Ed eccoci al provino.
«Arrivai al campo in ciabatte. E il custode mi chiese cosa stessi facendo lì. Io gli risposi: “Devo fare un provino”. E lui: “Ma se non hai le scarpe?”. Passò in quel momento Valentino Mazzola che capì la situazione e disse al custode di prendere un paio di scarpe sue e di darmele».
Quindi?
«Il provino andò alla grande. Mi dissero subito di tornare il giorno dopo».
E quindi entra a far parte del Torino.
«Avevo 15 anni. Facevo la differenza, ero un mancino».
Fino al giorno della tragedia di Superga.
«Eravamo al campo, ci stavamo allenando. Il custode ci diede la notizia. Io e un mio compagno, Franconi, a bordo di una Vespa, andammo sulle montagne. E davanti ai nostri occhi si presentò uno strazio che è impossibile descrivere».
La fine del Grande Torino.
«Certo, con la prima squadra avevo disputato un’amichevole contro il Fanfulla. Giocai il secondo tempo, entrando al posto di Valentino Mazzola. Ero il suo erede. E la scomparsa del Grande Torino ha subito spezzato le ali alla mia carriera. In quella squadra avrei potuto inserirmi e fare faville, ma è scomparsa e anche la mia carriera ne ha risentito pesantemente».
Rigorosamente la 10 sulle spalle.
«Bravo, rigorosamente. Ero al Torino e il tecnico mi voleva dare la 11, la rifiutai e non giocai. Lo stesso qualche anno dopo a Mantova. Quel numero mi dava una marcia in più».
Bel caratterino.
«Ero un despota. Ma me lo potevo permettere perché poi andavo in campo e giocavo alla grande».
A Mantova accade che…
«Mi volevano, ma il Taranto sparò una cifra impossibile all’epoca, 20 milioni di vecchie lire. Nella speranza che il Mantova dicesse di no. E, invece, accettò. Allora i dirigenti pugliesi pretesero il pagamento immediato. E così il presidente del Mantova fece aprire la banca a mezzanotte per prelevare questi 20 milioni».
A Mantova, parliamo del 1960.
«Ricordo un Mantova-Inter. Angelillo si permise di farmi un tunnel, lo presi a male parole. E poi gli ricambiai lo scherzetto: “Guarda come si fa un tunnel…”, gli dissi».
Rimpianti nella sua carriera da calciatore?
«No, nessuno, perché all’epoca c’era il vincolo dei calciatori alle società. Eravamo prigionieri dei presidenti, mica come adesso! Avessi giocato in questa epoca avrei guadagnato milioni su milioni».
Da allenatore, però, si faceva pagare…
«Chi mi voleva doveva pagarmi, perché io andavo in un posto solo per vincere».
Nel suo girovagare per l’Italia come è arrivato a Pescara?
«Ero a Bari. Nel novembre del 1964 mi venne a prendere l’allora presidente Scuccimarra. E grazie ai miei gol ci salvammo. A Pescara, poi, rimasi e feci l’ultimo anno da calciatore, iniziando ad allenare. Ero un allenatore-calciatore. Impensabile ai giorni d’oggi».
Altri tempi.
«Oggi ci sono gli staff di dieci persone. All’epoca facevo tutto io: direttore sportivo, allenatore preparatore, tattico e quant’altro».
In chi si rivede oggi?
«In nessuno perché sono cambiati i tempi. Se proprio devo fare un nome dico Mourinho, ma gli altri sono tutti dei bonaccioni».
Va allo stadio?
«Non più. Vedo il calcio in televisione, anche quello estero».
Le piazze a cui si sente più legato?
«Ad Avellino e a Taranto ovunque vado mi si aprono le porte. Ad Avellino sono stato quattro anni e ho fatto due figli. Ero un idolo. Un Dio. Era l’Avellino del compianto presidente Sibilia. Con me si è sempre comportato da galantuomo, anche perché avevo l’ambiente dalla mia parte. Era ricco e ignorante. Ma non era un camorrista, no. Un grande costruttore con la passione per il calcio, gli piaceva apparire. Facemmo grandi cose con tanto di promozione in serie B. L’ultimo dei quattro anni, stagione 1974-75, mi cacciò a quattro giornate dalla fine dopo che vincemmo a Verona. Dissi che avremmo puntato alla serie A e lui al ritorno in città mi esonerò, provocando una mezza rivoluzione. Anche il parroco qualche giorno dopo mi venne a pregare a casa di tornare in panchina».
Zeman in panchina a Pescara?
«Un chiacchierone, non lo avrei mai ripreso dopo che ha lasciato una città a bocca aperta nel 2012. Io sono un sentimentale. Non so quante volte ho rifiutato proposte allettanti perché avevo dato la parola. Un anno Jurlano e Cataldo (presidente e ds del Lecce, ndr) mi offrirono il doppio di quanto prendevo ad Avellino pur di andare a Lecce. Ma dissi no, mica potevo tradire chi mi vedeva come un Dio. Oggi, invece, vendono i loro sentimenti per un tozzo di pane in più».
Con quale presidente si è trovato meglio?
«Angelini, quello del Chieti. Guido Angelini. Mi chiamò nel 1976. Io ero in B, il Chieti in quarta serie. Gli dissi che non potevo andare. E lui insistette. Fino a quando mi chiese di fare la cifra. C’erano le elezioni in ballo e bisognava vincere, sia in campo che alle urne».
Lei fece la cifra?
«Sì, il doppio di quanto prendevo in B, ad Avellino. E non mi fece fiatare. Vincemmo, ovviamente».
La delusione più grande?
«Sempre a Chieti, lo spareggio di Cesena del 1989. Mi è rimasto sullo stomaco. Quei rigori me li sogno la notte. Genovasi non ne aveva sbagliato uno, sempre a segno. Quel giorno l’ha fallito. E l’altro a fallire dagli undici metri fu Luca Leone, l’attuale direttore sportivo del Pescara».
Il giocatore più forte che ha allenato?
«Giovanni Roccotelli (ala sinistra di origine barese classe 1952, ndr). Ero ad Avellino e l’anno della promozione in B ci fece impazzire con la maglia del Trani. Dissi a Sibilia di prenderlo subito e lui lo pagò 100 milioni, salvo poi rivenderlo al Cagliari l’anno successivo per il doppio. Era un attaccante devastante».
Che cosa non rifarebbe?
«Niente. Non rimpiango nulla, perché quello che ho fatto l’ho costruito con i sacrifici. A 15 anni mi alzavo alle 5 del mattino e andavo a correre sulla ferrovia per migliorare la rapidità. Ovviamente scalzo!».
Ne ha viste di tutti i colori però…
«Io non sono un santo, sia bel chiaro. Ma mi facevo rispettare. Avevo gli argomenti per farlo, sia in campo che in panchina. Ma ho cercato di fare sempre il bene della mia squadra. Generalmente, credo di aver rispettato tutti».
Quando è stato l’ultima volta a Torino?
«Nel maggio scorso per l’inaugurazione del nuovo Filadelfia. E lì mi sono arrabbiato con il presidente Urbano Cairo».
Addirittura!
«Sì, perché non ha fatto sfilare prima di tutti i reduci del Grande Torino. Diciamo che non mi sono sentito trattato bene. Ma gliel’ho detto in faccia a Cairo, mica gliele mando a dire! Noi siamo la storia, senza di noi non ci sarebbe stato il Torino».
Già il Torino, che cos’ha di particolare?
«E’ una chimica di affetto e senso di appartenenza che solo chi indossa quella maglia può capire».
Oggi invece…
«Lascia perdere… Ti dico solo che i campioni dell’epoca erano più umani. Valentino Mazzola si fermava a parlare e a giocare con noi giovani. C’era un rapporto umano che ora non c’è. Oggi vedi certi campioni con la puzza sotto il naso che mi fanno solo rabbia».
Il calcio è business?
«E’ senza sentimento. Avessi giocato negli ultimi venti anni avrei una montagna di soldi grazie al mio sinistro e alla mia testa».
@roccocoletti1. ©RIPRODUZIONE RISERVATA