l'intervista

«Con la politica basta, ora farò il contadino e il nonno»

All’indomani dall’assoluzione nel processo Rifiutopoli l’ex assessore regionale racconta i 5 anni più travagliati della sua vita: «Quando a casa arrivò la polizia...»

TERAMO. E’ stato primario ospedaliero, è stato potente assessore regionale alla sanità nella giunta Chiodi, ora fa il contadino nella sua Castrogno. E fa il nonno, anche se a distanza. Lanfranco Venturoni, 64 anni, è uscito con le “mani pulite” dalla Rifiutopoli abruzzese. E’ stato assolto, dopo cinque anni da battaglie nelle aule di giustizia. Ora è sollevato e accetta di raccontare i cinque anni più travagliati della sua vita. A partire da quella mattina del 22 settembre 2010.

Che cosa ricorda di quella mattina?

«Ero a casa, a Castrogno, hanno suonato al cancello e ho visto le macchine della polizia giudiziaria. Non sono stato del tutto sorpreso: si sentivano delle voci, ma in fondo non pensavo che l'avrebbero mai fatto, avevo lo coscienza a posto. Io stavo dormendo: la sera prima avevo incontrato alcuni medici di base a casa di Ercole Core (segretario della Fimmg, ndr)per mettere giù un'ipotesi di potenziamento dei distretti sanitari di base per decongestionare gli ospedali. E avevo fatto tardi. Quando ho visto quelle auto non nego che ho sentito il ghiaccio nelle vene: mi hanno presentato un enorme fascicolo con l’ordinanza di custodia. Io ebbi una reazione forte, la mia idea era che in realtà la Team ci entrasse poco e lo dissi chiaro e tondo. Era passato un anno intero dalla questione della Team. E sapevo che gli arresti avvengono per quattro motivi: pericolosità sociale, possibilità di ricommettere il reato, pericolo di fuga e inquinamento delle prove. Io da un anno non ero più nella Team, non pensavo ci fossero i motivi dell'arresto».

Come ricorda i 20 giorni ai domiciliari?

«Era il periodo della vendemmia, ho vendemmiato il mio vino da solo. Leggevo i giornali, vedevo la televisione, mi venne trovare il senatore Quagliarello. Il colpo peggiore fu quando lessi le motivazioni con una serie di falsità sulle dazioni di danaro: si metteva in dubbio anche l’acquisto di una casa a Teramo da parte di mia moglie, per cui venne fatta una valutazione assurda. Così ho impiegato parte del tempo a scrivere una memoria per smontare le accuse. Di lì a poco ci fu il primo interrogatorio: io non avevo ricevuto mai un avviso di garanzia, l'ho avuto dopo i domiciliari. Dicevano che era rimasto in un cassetto».

E come reagì il mondo politico di allora al suo arresto? Quando maturò la decisione di dimettersi da assessore?

«Volevano che io mi dimettessi, io non volevo. Fino a quando non mi sono dimesso sono stato agli arresti domiciliari e poi ho avuto l’obbligo di dimora, quello che si dà ai mafiosi. Alla fine ho ceduto e mi sono dimesso. Stavo mettendo in imbarazzo il partito, anche se il governatore Chiodi e il coordinatore Piccone di dicevano di non mollare. Dopo due mesi mi dimisi, allora mi liberarono. La grande soddisfazione è che subito dopo tutti i consiglieri regionali di maggioranza mi elessero loro capogruppo. Un segno di riconoscimento notevole. E anche da parte della sinistra, i miei avversari politici mi diedero piena solidarietà: non posso dimenticare che il segretario del Pd provinciale dell'Aquila, Di Giandomenico, fu il primo a dire: “Io su Venturoni metto la mano sul fuoco”. E in consiglio regionale, nonostante avvenissero scontri verbali violenti, nessuno mai ha detto una parola sull'arresto. Nessuno mai ha messo in dubbio la mia onestà. E’ stato importantissimo avere la solidarietà di chi mi stava intorno».

Che cosa le rimarrà di questi ultimi cinque anni?

«Sono stati pesanti: questa esperienza mi ha insegnato una cosa importantissima. Vivere di persona una situazione del genere ti colpisce. Ero mortificato perchè avevo infangato il cognome dei Venturoni, una famiglia onesta. Mi ha pesato nei confronti della famiglia e dei miei figli.

Il coinvolgimento in Rifiutopoli l’ha pregiudicata in qualche modo, stroncandole la carriera politica?

«All’epoca andai in pensione: non potevo fare contemporaneamente l'assessore e il medico. Prendere l'aspettativa, come avevo fatto nei cinque anni precedenti, non aveva senso. Avrei dovuto pagare 1.300 euro al mese di contributi, perciò scelsi di andare in pensione. Ora vivo di quella. Io non sono ricco, meno male che mi hanno assolto: se mi avessero condannato avrei dovuto pagare tutte le spese. Ho temuto di perdere quel che mio padre mi ha lasciato. Tantopiù che la Team, quella che avevo fatto prosperare con una serie attività, si è costituita parte civile chiedendomi 100mila euro di danni e addirittura la provvisionale. Sono cose che ti colpiscono, mai avresti pensato che potessero accadere».

E la politica?

«Ho fatto un errore a ricandidarmi (alle regionali del 2014, ndr): con tutte le spese della campagna elettorale, mi sono giocato quanto messo da parte in 5 anni da consigliere regionale. Ma una serie di amici l'avrebbe vissuto come un tradimento un mio “no”. Alla fine i risultati delle urne hanno sancito il mio errore: alle prime elezioni ho preso 6mila e passa voti, alla seconda 7.500, alle ultime 2.700. La macchina del fango ti massacra. Con la politica ora basta, ho dato troppo. La cosa triste è che fare politica oggi non conviene a chi ha qualcosa da perdere. O non fai niente ma se fai qualcosa, se ti assumi qualche responsabilità, sei a rischio. Questa è la storia nel nostro Paese: non significa che non ci vogliono i controlli, ma non è possibile che chi si dedica a cercare di risolvere un problema ci rimetta».

E il futuro, come lo vede?

«Ora aspetto che scrivano le motivazioni della sentenza, vediamo se la procura ricorre in Appello. Ma non ho paura: i miei avvocati hanno chiarito i fatti in una materia molto complessa. E devo dire che il collegio giudicante mi ha fatto rifare pace con la giustizia. Almeno è finito questo incubo. Quando questa storia sarà definitivamente archiviata penso che farò il contadino e il nonno, anche se le mie due nipoti non sono a Teramo. D’altronde purtroppo è cambiata la legge: i pensionati non possono fare più niente, con i miei titoli avrei potuto fare il direttore generale di una Asl, ma ora sono tagliato fuori».

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