Simona in viaggio tra i talebani per riportare a casa Arshad 

La responsabile del centro che accoglieva il giovane papà pakistano stroncato a 27 anni da un ictus ha consegnato la salma e 5mila euro alla famiglia. «Ho corso gravi rischi, ma lo avevo promesso»

ISOLA DEL GRAN SASSO. «Nel ricordo di Arshad guardiamo le nostre e le vostre montagne e le vediamo come un punto di unione, non un limite tra chi è qua e chi è là, ma le guardiamo sapendo che abbiamo dei fratelli lontani che ci pensano e ci rispettano». Queste le commoventi parole scritte a conclusione della lettera che la famiglia di Arshad Ali, il 27enne pakistano ospite del centro di accoglienza di San Pietro di Isola del Gran Sasso morto nello scorso gennaio all’ospedale di Teramo a causa di un’emorragia cerebrale, ha mandato «ai carissimi amici della comunità di Isola», alla cooperativa “Salam” (che gestisce il centro) e all’associazione culturale locale “Taruss” (che ha promosso una raccolta fondi per aiutarli). Una lettera semplice, profonda, piena di significato, che segue quella di cordoglio inviata loro dalla comunità isolana. Entrambe sono state consegnate nelle mani di Simona Fernandez, la responsabile di “Salam”, che insieme al mediatore culturale Ajmal ha sfidato mille pericoli e peripezie per riportare la salma del ragazzo alla sua famiglia nel piccolo villaggio di Bara, sulle montagne presidiate dai talebani tra il Pakistan e l’Afghanistan. Un agglomerato di case fatte di terra, senza elettricità né acqua potabile, nelle aride lande a lungo scenario di guerra e di soprusi dalle quali Arshad era partito a piedi per arrivare – dopo un viaggio lunghissimo – in Italia per dare un futuro migliore a sua moglie, ai suoi fratelli e alle sue tre figlie di tre, sei e dieci anni. Una vita dura quella del giovane migrante, che in Pakistan aveva sopportato le angherie e le violenze dei talebani, ma che aveva ritrovato il sorriso nella sua nuova patria. A Isola Arshad aveva tanti amici, non solo suoi connazionali del centro, ma anche persone del posto che lo descrivono «pieno di entusiasmo e voglia di fare»; aveva conseguito il diploma di italiano e trovato un lavoro nella cooperativa di legnatico “Brancastello”. L’impiego gli permetteva di inviare ogni mese un aiuto economico alla sua famiglia. Un sogno infranto dall’ictus che lo ha colpito, un destino crudele che ha messo in moto una catena di solidarietà di una comunità, quella isolana, nella quale all’inizio in molti hanno criticato l’arrivo dei migranti, ma che poi, ricredendosi, si è mobilitata per aiutarlo. Grazie alla raccolta online e ai salvadanai lasciati nei bar e ristoranti della Valle Siciliana da Fabrizio Sfrattoni di “Taruss” sono stati raccolti quasi 3mila euro e in molti nella camera ardente hanno dato il saluto al migrante prima del suo ritorno a casa. L’ultimo viaggio di Arshad, che ora riposa tra le sue amate montagne.
«Un viaggio che non dimenticherò mai, ma che ho fatto con tutto il cuore perché avevo promesso al mio amico Arshad, in quel letto della rianimazione di Teramo, che lo avrei riportato dai suoi cari», racconta Simona Fernandez. E continua: «Siamo atterrati a Islamabad dove ci stavano aspettando il padre e gli zii, tutti uomini. Io ero coperta completamente con il burqa. È toccato a me parlare con il padre, che è svenuto tra le mie braccia. Poi è iniziata l’odissea di cinque ore per arrivare nel suo paese». La carovana con la quale Simona e il mediatore Ajmal viaggiavano ha attraversato Peshawar, l’ultima città controllata dal governo, ed è poi entrata nella zona sotto il dominio dei talebani, un’area vietata a qualsiasi straniero. «Era tutto un posto di blocco di milizie con i mitra», prosegue Simona, «se mi avessero scoperta mi avrebbero rapita. Ero immobile, non potevo parlare, ma ero certa che Dio mi avrebbe custodita e aperto tutte le porte per riportare Arshad a casa». L’arrivo al villaggio è stato commovente, con i circa quattrocento abitanti ad attenderli stretti attorno al dolore della famiglia. «La mamma e la moglie mi hanno abbracciata e il mediatore ha spiegato loro che sono stata ad assisterlo in ospedale», dice ancora Fernandez, «non è facile descrivere a una mamma la morte di un figlio e raccontarle i suoi ultimi istanti di vita, ma mi sono fatta forza e le ho parlato avendo davanti agli occhi l’immagine di Arshad. Insieme abbiamo pianto. Ho poi consegnato loro la lettera della comunità isolana e i cinquemila euro – 2.800 di Taruss e 2.200 di Salam – ma poi è scattato il coprifuoco e siamo dovuti scappare».
Il giorno seguente si è svolto il funerale con il rito islamico. «Durante la funzione», racconta ancora Simona, «gli uomini sono stati separati dalle donne e quando sono rimasta sola con loro ho potuto scoprire il viso. Il loro stupore mi ha impressionato: non avevano mai visto una donna europea e dalla pelle chiara. Mi ha colpito, inoltre, la ruvidezza delle mani delle bambine, che non vanno a scuola ma lavorano la terra a mani nude, l’indescrivibile povertà, l’arretratezza sociale e culturale. Ma hanno dimostrato grande ospitalità, affetto e riconoscenza ed è stato molto triste separarsi da loro».
La moglie di Arshad dovrà trascorrere in casa due mesi in segno di lutto e le bambine non frequenteranno mai la scuola perché in quel posto non ci sono scuole. «Spero che la famiglia possa aprire con i nostri soldi un piccolo bazar», dice ancora Simona Fernandez, «io sono stata l’ambasciatrice di una comunità intera per far capire che Arshad non è mai stato per noi un numero, ma una persona con un cuore grande che è stata amata; e loro lo hanno compreso». Il viaggio di Simona è stato un messaggio di pace, fratellanza e uguaglianza tra due popoli, differenti in tutto, ma che parlano la lingua dell’umanità e del rispetto. «Arshad ha attraversato montagne, fiumi, mari, per morire in un letto in uno stato simile al sonno», scrive ancora la famiglia nella lettera, «questa tragica morte ci ha però insegnato molte cose. La prima è che i nostri figli, spesso, trovano delle comunità che li accolgono e li amano come noi; la seconda è che nonostante le differenze che vorrebbero dividerci, in realtà siamo molto simili. Dio, infatti, ci ha creati tutti con un cuore in grado di accogliere un essere umano e curarlo come se fosse nostro figlio, nostro fratello. Per tutti noi l’arrivo di Arshad e dei vostri due cittadini ha rappresentato un gesto molto forte perché abbiamo compreso che anche voi, come noi, siete rimasti sconvolti dalla sua morte, tanto da fare una raccolta di soldi. Questo gesto è grandissimo, perché simbolo che il nostro Arshad ha lasciato un segno profondo nel vostro paese».
Una storia di speranza e di lotta a ogni forma di pregiudizio, intolleranza e razzismo che è diventata un’opera d’arte, “Pane di lacrime” di Ida Chiatante, educatrice nel centro di San Pietro, selezionata tra le mille creazioni pervenute nel concorso “I Mille Sgarbi” del critico Vittorio Sgarbi e che è stata in mostra fino al 9 giugno ai Magazzini del Sale di Cervia. «Un cuore che vuole rappresentare che nei nostri cuori c’è il pensiero delle figlie di Arshad», conclude Fernandez, «l’opera contiene, infatti, la foto delle bambine con molliche di pane impastate nel vetro e vuole sottolineare che il viaggio di un migrante è fatto del pensiero alla famiglia lontana e della ricerca e condivisione del pane».
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