I Mille di Garibaldi Tanti lombardi e un abruzzese

Da un piccolo approdo scoglioso e scomodo, Quarto presso Genova, tra il 5 e il 6 maggio 1860, per l’esattezza all’alba del 6 dopo febbrili e complesse operazioni d’imbarco avviate nella serata del giorno precedente, salpavano 1.089 volontari provenienti da ogni parte d’Italia con una schiacciante preponderanza di giovani lombardi. Avevano preso posto sui piroscafi Piemonte e Lombardo della Società Rubattino, genovese, l’uno sotto il comando di Giuseppe Garibaldi, l’altro di Nino Bixio.

Avevano in progetto un’azione disperata: togliere ai Borbone il Regno delle due Sicilie per consegnarlo a Vittorio Emanuele II compiendo il passo più importante e decisivo per unificare l’Italia.
Le insurrezioni siciliane del mese di marzo avevano dato indicazioni positive per organizzare la spedizione, ma erano state represse dall’esercito borbonico, altamente specializzato solo in questo tipo d’azione militare, essendosi il suo governo tenutosi prudentemente, troppo prudentemente, lontano da ogni altro tipo di intervento armato, per esempio in battaglia.
D’altro canto re Ferdinando II (detto re Bomba perché particolarmente versato nel bombardare dai suoi forti di presidii cittadini i sudditi quando uscivano dall’ordine) propugnava una politica di ambigua neutralità legato com’era al governo di Vienna, e dichiarandosi sicuro perché il suo regno era protetto dal mare, a est, sud e ovest da quello Mediterraneo, e a nord dall’acqua santa, lo Stato della Chiesa per intendersi.

Per il resto, buoni rapporti con tutti, purché i sudditi rispettassero «il trono e l’altare», gli inglesi facessero i loro affari in Sicilia senza occuparsi di politica, i francesi proteggessero il Papa, e il cugino-cognato Vittorio Emanuele, e i suoi sostenitori molti custoditi nei bagni penali del regno o spediti in esilio, non pensassero alle Due Sicilie quando parlavano d’Italia unita.
Con questa idea di governo e con uno stato organizzato socialmente in modo quasi feudale, con un tasso di analfabetismo superiore all’80%, vie di comunicazioni interne pressoché inesistenti se si escludono quelle volute da Gioacchino Murat e quelle frettolosamente approntate tra il 1858 e il 1859 dal generale Pianell (che riguardavano anche l’Abruzzo tra le attuali provincie di Pescara e Teramo) a scopi militari, con una florida riserva aurea e di valuta nelle casse dello Stato dovuta sostanzialmente alla mancanza di interventi in opere pubbliche e agli stipendi di fame degli impiegati governativi, con uno spaventosamente grande e potente ceto parassitario costituito da ordini religiosi e da una chiesa dalle immense proprietà agrarie, non era nemmeno pensabile che a muoversi per unificare l’Italia fossero i Borbone come in molti dicevano allora e qualcuno ancora sostiene.

Forse dal punto di vista del maggiore radicamento italiano del ramo della dinastia si poteva almanaccare su maggiori legittimità rispetto ai Savoia, inoppugnabile era che tra gli otto Stati in cui era divisa l’Italia il Regno delle due Sicilie era il più ampio territorialmente e il più popoloso, per il resto innanzitutto a Ferdinando II di fare un’impresa del genere «nu j’passava manch’ pa’ capa», troppa fatica, troppo disturbo, troppi cambiamenti. Parlamento, qualche libertà di troppo, come quella di stampa, e parole terribili come libertà, costituzione, e impicci a non finire: «nunn’era cosa proprio». E così, con una tempistica di cui spesso il destino si serve, se ne andò, alla vigilia dei fatti, lasciando al giovane figlio Francesco, che aveva appena aperto gli occhi sul mondo nonostante i 23 anni che prima glieli avevano tenuti chiusi frati, preti, novene e rosari, a sbrogliarsela sì con Garibaldi e una banda di cialtroni opportunisti (notabili del regno, compresi membri della famiglia reale e della corte), ma soprattutto con la Storia che in fondo aveva già deciso.

Mentre procedevano verso sud, dopo uno scalo «tecnico» a Talamone, per prendere un po’ d’armi e munizioni, i volontari cantavano, c’era persino un pianoforte sul Piemonte, e Bixio e il generale si parlavano spesso «alla voce» tra una nave e l’altra. I dialetti cominciavano a essere più comprensibili, la consapevolezza di essere protagonisti di una grande impresa non era ancora diffusa, si andava con il Generale a fare l’Italia unita, tanto bastava e quei giovani.
Ma chi erano, da dove venivano, quale il ceto professionale o di lavoro?

In ordine decrescente: 443 lombardi, di cui 166 bergamaschi, e tra i nove di Varese e provincia anche un Bossi, 160 veneti, 157 liguri, 80 toscani, 45 siciliani, 38 emiliani e romagnoli, 30 piemontesi, 20 friulani, 20 calabresi, 19 campani, 11 marchigiani, 10 dal Lazio, 5 pugliesi, 4 dall’Umbria e 3 dalla Sardegna, uno della Basilicata.
L’unico abruzzese era Pietro Baiocchi di Atri.

Poi 19 stranieri: molti ungheresi e inglesi, polacchi. E tanto per fare chiarezza sulla leggenda che il Risorgimento fu solo movimento d’élite (anche se non poteva che essere guidato e massicciamente composto dalle classi più consapevoli e istruite), ecco le professioni dei 1.089 garibaldini: ben 283 tra operai, artigiani e contadini; 253 intellettuali (impiegati, artisti e professionisti), 203 possidenti, 203 militari, 120 più gli stranieri senza un lavoro documentato.

L’Impresa dei Mille non fu appoggiata se non con ambiguità - da diplomatico senza scrupoli - da Cavour, fu sostenuta da Vittorio Emanuele II per mera bulimia dinastica, aiutata, e fortunatamente, dai fondi messigli a disposizione della Massoneria inglese, ch’era ben altro da quella di Gelli e di altri «campioni» dell’Italia contemporanea. Ma soprattutto fu resa possibile dall’entusiasmo di tanti giovani del nord d’Italia che quasi spinsero Garibaldi, divenuto dubbioso proprio per tante ambiguità e incertezze, e poi da molti uomini del popolo.

Il resto lo fecero le migliaia di altri volontari che raggiunsero i Mille nelle settimane successive, i «picciotti» siciliani, i molti soldati che abbandonavano la bandiera con il giglio e iniziavano a combattere dietro quella italiana.
Fu decisivo il sostegno dell’opinione pubblica italiana e internazionale che seguirono Garibaldi e i suoi attraverso resoconti di corrispondenti del calibro di Alessandro Dumas.
A Marsala erano già un mito, ed era appena l’11 maggio.
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