Stefano Fonzi, dall’amore per la bici alla ribalta con Morricone e Paoli
Il musicista e percussionista aquilano racconta la sua carriera sui palcoscenici di tutto il mondo «A 7 anni un maestro venne a cercare talenti a scuola. E mia madre mi disse: o fai ciclismo o suoni»
Quel piccolo ciclista senza troppo talento, abituato ad arrivare ultimo a quasi tutte le gare, si è trasformato in un musicista di eccellenza. È un po’ come la favola al contrario del ranocchio trasformato in principe. Stefano Fonzi è quel piccolo atleta diventato un gigante della musica. Da Morricone a Dee Dee Bridgewater, da Bosso a Paoli, passando per orchestre di fama mondiale.
Come è iniziato tutto?
«È iniziato a 7 anni quando un maestro di musica venne a cercare gli iscritti a scuola. Io tornai a casa, lo dissi a mamma e lei mi rispose: “No, o fai ciclismo o suoni”. Io che non ero tagliato per le due ruote optai per il sassofono. Tra l’altro era lo strumento che suonava mio padre con la banda di Caporciano».
La musica in casa, con il papà sassofonista, quanto ha influito sulla sua formazione?
«Ha influito, nel senso che soprattutto quando ho iniziato a studiare seriamente. Mia madre voleva che facessi l’università, papà mi accompagnava alle prove dei miei primi gruppi, restava in auto ad aspettarmi di notte, cercava di sostenermi in tutto e per tutto anche nell’acquisto degli strumenti. Lui è morto di infarto nel 2003 ed è stata davvero una persona importante per la mia vita e per la mia formazione musicale»
Quanti strumenti suona?
«Sono percussionista, suonicchio il sax, strimpello pianoforte, basso elettrico e violoncello che in realtà, dopo la nascita di mio figlio Francesco, ho dovuto interrompere».
Gli inizi della carriera?
«Facevo le serate e ho iniziato con la banda, avevo 8 anni, e a 14-15 anni mi sono buttato sul liscio. Non è durato molto perché a 18 anni ho iniziato con i concerti di musica sinfonica, cameristica con varie formazioni, sempre nella zona dell’Aquila, fino a quando non mi sono trasferito a studiare a Roma. Mi sono diplomato a Santa Cecilia nel 2001».
E a quel punto si è aperto un mondo?
«Sì, lì si è davvero aperto un mondo perché ho iniziato a lavorare con le varie orchestre, con Santa Cecilia, ma soprattutto con Roma Sinfonietta che mi ha dato la possibilità di suonare con tanti musicisti di fama internazionale: Yo Yo Ma, Roger Waters, Carlos Santana, Alicia Kiss, Andrea Bocelli e tanti altri. Suonavo le percussioni e nello stesso periodo ho lavorato per 10 anni con Ennio Morricone con il quale ho avuto la possibilità di registrare decine di colonne sonore, cd e di tenere concerti in tutto il mondo: Palazzo di vetro dell’Onu, Royal Albert Hall e Apollo Theatre di Londra, Radio City Music Hall di New York, Arena di Verona e Partenone di Atene, tanto per citarne alcune. Ricordo che ci fu uno sciopero dell’Air France a Parigi, ero diretto a Tokyo con Morricone e mi dissero che potevo arrivare a Pechino, dormire lì e poi il giorno dopo spostami a Tokyo. Quando arrivai in Giappone con un giorno di ritardo lui mi disse: “Ahò, ma ’ndò c…. sei annato a finì?”».
Quanto le è servito collaborare con Morricone?
«Tantissimo, perché lui sulla musica applicata, quella da film, credo che sia il più grande compositore vivente del mondo. Apprezzo moltissimo anche le colonne sonore di Armando Trovajoli e Nino Rota».
Fu quello il suo trampolino di lancio?
«In realtà, fu una telefonata ricevuta nel 2006 da Pietro Ferri, editore di Rai Trade, oggi Raicom, al quale avevo inviato dei cd con la mia musica nel 2004. Mi disse di aver ascoltato o brani: “Io e te dobbiamo parlare”. Da quel momento ho iniziato a fare tante cose per la televisione, musiche di sottofondo, documentari, sport, sigle per vari programmi. Il punto di svolta è stato l’incontro con Fabrizio Bosso, l’omaggio per i 100 anni dalla nascita di Nino Rota e l’incisione con la London Symphony orchestra che ho avuto il piacere di comporre, arrangiare e dirigere. Esperienza unica, meravigliosa, poter scrivere e dirigere la propria musica per dei mostri sacri. A pensarci, a distanza di sei anni, ancora adesso mi vengono i brividi. Ricordo ancora quando al termine del turno di registrazione mi sentii telefonicamente con Caterina Caselli – Sugar - la quale mi aveva commissionato, per l’incisione del cd, un brano inedito mai orchestrato e sviluppato dal maestro Rota “Ragazzo di borgata”. “Enchantment”, il cd omaggio a Nino Rota, ha rappresentato un punto importante della mia carriera professionale, perché mi ha dato la forza di cominciare ad osare, a sperimentare e a contaminare i vari linguaggi».
Cosa la ispira nella composizione e negli arrangiamenti?
«Un po’ di ispirazione deve esserci, ma molto del lavoro è tecnico, la capacità che sviluppi negli anni, lavorando e affinando la tua professione. Per esempio il tema principale di “Otto e mezzo“ di Nino Rota, “La passerella”, composto per l’omonimo film di Federico Fellini, che originariamente era una marcetta di carattere bandistico, è diventato una ninna nanna e poi un valzer viennese. Da un’idea devi saper sviluppare la pratica. La parte iniziale di qualsiasi composizione è dettata dallo stato d’animo».
Il musicista più stimolante con il quale ha collaborato?
«Sicuramente Morricone, poi la conoscenza di Fabrizio Bosso, ma un po’ tutti perché da ciascuno riesci a prendere e a trasmettere qualcosa».
E il musicista con il quale vorrebbe collaborare?
«Direi più di uno. Mi piacerebbero Tiziano Ferro, Mario Biondi, Wynton Marsalis, Itzach Perlman. Poi c’è un brano del 2015, con la mia musica e il testo di Renato Zero, scritta in occasione del centenario del genocidio armeno che avremmo dovuto eseguire all’Arena di Verona, ma che poi è saltato. Il titolo del brano è “Vengo da te” e mi piacerebbe tanto se fosse inciso e pubblicato. Il primo approccio con Renato Zero fu fantastico perché mi arrivò una telefonata da un numero anonimo e una voce dall’altro lato che diceva: “Stefano? Ciao, sono Renato”. “Renato chi?”. “Renato Zero”, e io credevo che fosse uno scherzo di mio cognato”.
E la collaborazione con Gino Paoli?
«Nacque con l’Aypo (Avezzano young pop orchestra) e con quel concerto al teatro dei Marsi. Da lì nacque la collaborazione, l’idea di fare qualcosa a livello di jazz sinfonico con un trio jazz e l’orchestra, per rivisitare le sue canzoni con uno stile diverso. Gino è un amante di queste contaminazioni e sperimentazioni. Al di là della grandezza musicale dell’artista e del cantautore, quando stiamo insieme mi colpiscono i suoi racconti. Quando nomina Umberto, Luigi, Bruno, Fabrizio quasi non ti rendi conto che sta parlando di Bindi, Tenco, Lauzi e De André».
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Come è iniziato tutto?
«È iniziato a 7 anni quando un maestro di musica venne a cercare gli iscritti a scuola. Io tornai a casa, lo dissi a mamma e lei mi rispose: “No, o fai ciclismo o suoni”. Io che non ero tagliato per le due ruote optai per il sassofono. Tra l’altro era lo strumento che suonava mio padre con la banda di Caporciano».
La musica in casa, con il papà sassofonista, quanto ha influito sulla sua formazione?
«Ha influito, nel senso che soprattutto quando ho iniziato a studiare seriamente. Mia madre voleva che facessi l’università, papà mi accompagnava alle prove dei miei primi gruppi, restava in auto ad aspettarmi di notte, cercava di sostenermi in tutto e per tutto anche nell’acquisto degli strumenti. Lui è morto di infarto nel 2003 ed è stata davvero una persona importante per la mia vita e per la mia formazione musicale»
Quanti strumenti suona?
«Sono percussionista, suonicchio il sax, strimpello pianoforte, basso elettrico e violoncello che in realtà, dopo la nascita di mio figlio Francesco, ho dovuto interrompere».
Gli inizi della carriera?
«Facevo le serate e ho iniziato con la banda, avevo 8 anni, e a 14-15 anni mi sono buttato sul liscio. Non è durato molto perché a 18 anni ho iniziato con i concerti di musica sinfonica, cameristica con varie formazioni, sempre nella zona dell’Aquila, fino a quando non mi sono trasferito a studiare a Roma. Mi sono diplomato a Santa Cecilia nel 2001».
E a quel punto si è aperto un mondo?
«Sì, lì si è davvero aperto un mondo perché ho iniziato a lavorare con le varie orchestre, con Santa Cecilia, ma soprattutto con Roma Sinfonietta che mi ha dato la possibilità di suonare con tanti musicisti di fama internazionale: Yo Yo Ma, Roger Waters, Carlos Santana, Alicia Kiss, Andrea Bocelli e tanti altri. Suonavo le percussioni e nello stesso periodo ho lavorato per 10 anni con Ennio Morricone con il quale ho avuto la possibilità di registrare decine di colonne sonore, cd e di tenere concerti in tutto il mondo: Palazzo di vetro dell’Onu, Royal Albert Hall e Apollo Theatre di Londra, Radio City Music Hall di New York, Arena di Verona e Partenone di Atene, tanto per citarne alcune. Ricordo che ci fu uno sciopero dell’Air France a Parigi, ero diretto a Tokyo con Morricone e mi dissero che potevo arrivare a Pechino, dormire lì e poi il giorno dopo spostami a Tokyo. Quando arrivai in Giappone con un giorno di ritardo lui mi disse: “Ahò, ma ’ndò c…. sei annato a finì?”».
Quanto le è servito collaborare con Morricone?
«Tantissimo, perché lui sulla musica applicata, quella da film, credo che sia il più grande compositore vivente del mondo. Apprezzo moltissimo anche le colonne sonore di Armando Trovajoli e Nino Rota».
Fu quello il suo trampolino di lancio?
«In realtà, fu una telefonata ricevuta nel 2006 da Pietro Ferri, editore di Rai Trade, oggi Raicom, al quale avevo inviato dei cd con la mia musica nel 2004. Mi disse di aver ascoltato o brani: “Io e te dobbiamo parlare”. Da quel momento ho iniziato a fare tante cose per la televisione, musiche di sottofondo, documentari, sport, sigle per vari programmi. Il punto di svolta è stato l’incontro con Fabrizio Bosso, l’omaggio per i 100 anni dalla nascita di Nino Rota e l’incisione con la London Symphony orchestra che ho avuto il piacere di comporre, arrangiare e dirigere. Esperienza unica, meravigliosa, poter scrivere e dirigere la propria musica per dei mostri sacri. A pensarci, a distanza di sei anni, ancora adesso mi vengono i brividi. Ricordo ancora quando al termine del turno di registrazione mi sentii telefonicamente con Caterina Caselli – Sugar - la quale mi aveva commissionato, per l’incisione del cd, un brano inedito mai orchestrato e sviluppato dal maestro Rota “Ragazzo di borgata”. “Enchantment”, il cd omaggio a Nino Rota, ha rappresentato un punto importante della mia carriera professionale, perché mi ha dato la forza di cominciare ad osare, a sperimentare e a contaminare i vari linguaggi».
Cosa la ispira nella composizione e negli arrangiamenti?
«Un po’ di ispirazione deve esserci, ma molto del lavoro è tecnico, la capacità che sviluppi negli anni, lavorando e affinando la tua professione. Per esempio il tema principale di “Otto e mezzo“ di Nino Rota, “La passerella”, composto per l’omonimo film di Federico Fellini, che originariamente era una marcetta di carattere bandistico, è diventato una ninna nanna e poi un valzer viennese. Da un’idea devi saper sviluppare la pratica. La parte iniziale di qualsiasi composizione è dettata dallo stato d’animo».
Il musicista più stimolante con il quale ha collaborato?
«Sicuramente Morricone, poi la conoscenza di Fabrizio Bosso, ma un po’ tutti perché da ciascuno riesci a prendere e a trasmettere qualcosa».
E il musicista con il quale vorrebbe collaborare?
«Direi più di uno. Mi piacerebbero Tiziano Ferro, Mario Biondi, Wynton Marsalis, Itzach Perlman. Poi c’è un brano del 2015, con la mia musica e il testo di Renato Zero, scritta in occasione del centenario del genocidio armeno che avremmo dovuto eseguire all’Arena di Verona, ma che poi è saltato. Il titolo del brano è “Vengo da te” e mi piacerebbe tanto se fosse inciso e pubblicato. Il primo approccio con Renato Zero fu fantastico perché mi arrivò una telefonata da un numero anonimo e una voce dall’altro lato che diceva: “Stefano? Ciao, sono Renato”. “Renato chi?”. “Renato Zero”, e io credevo che fosse uno scherzo di mio cognato”.
E la collaborazione con Gino Paoli?
«Nacque con l’Aypo (Avezzano young pop orchestra) e con quel concerto al teatro dei Marsi. Da lì nacque la collaborazione, l’idea di fare qualcosa a livello di jazz sinfonico con un trio jazz e l’orchestra, per rivisitare le sue canzoni con uno stile diverso. Gino è un amante di queste contaminazioni e sperimentazioni. Al di là della grandezza musicale dell’artista e del cantautore, quando stiamo insieme mi colpiscono i suoi racconti. Quando nomina Umberto, Luigi, Bruno, Fabrizio quasi non ti rendi conto che sta parlando di Bindi, Tenco, Lauzi e De André».
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